Pur senza pretese di esaustività, il presente saggio assume spiccati caratteri pratico-conoscitivi sugli affascinanti concetti di «conoscenza e verità», con tratti critici significativi sulle interazioni sociali e sui modi di relazionarsi con gli altri.
Si tratta di un saggio essenzialmente a sfondo culturale, critico ed etico, incentrato sul diritto-dovere civico e morale di affermare la verità, archetipo che costituisce il filo conduttore dell’intera trattazione, evocato nel significato etimologico e idiomatico di «parresia» (gr. παρρησία).
I vari temi trattati, scaturenti dalla cultura e dalla dottrina, pur nella loro limitatezza, non mancano di allettanti riflessioni che, nel loro insieme, tendono ad abbozzare modelli di vita conformi alla natura dell’uomo, all’etica privata e pubblica.
Nello stesso tempo, i vari argomenti fatti oggetto di esame possono offrire un valido contributo informativo e suscitare motivi di interesse sui mutevoli aspetti della conoscenza umana e su quelli tesi a delineare le varie forme e figure di verità.
I contenuti sono concisi e interamente votati alla comprensione di peculiari aspetti umani, sociali e politici, su cui intendono far luce, con indicazione di regole generali, criteri o azioni concrete.
Il saggio comprende contributi di diverse discipline, che vanno dalla cultura, all’etica, alla filosofia morale, alle scienze sociali e alla teoria politica, nell’intento di cogliere in esse rudimenti di parresia nei fondamentali aspetti teoretici, critici e pratici della vita e delle relazioni umane.
Nell’affrontare i vari argomenti si prendono le mosse dalla saggezza greco-latina per passare poi agli accostamenti e approfondimenti postulati dalla realtà dei nostri giorni.
L’idea di fondo del presente saggio è in stretta relazione logica con l’inestimabile binomio «cultura-etica», che costituisce un presupposto fondamentale per il corretto funzionamento di una società democratica.
Non è mancato un particolare occhio di riguardo per ciò che è immediatamente accessibile ad un’indagine critico-pratica dei temi affrontati, mirando in particolar modo ad una semplificazione degli stessi, onde consentirne la comprensione alla generalità o quantomeno ad un vasto pubblico.
In breve, il saggio offre utili elementi conoscitivi per avviare un fruttuoso approfondimento dei vari argomenti trattati e, nel contempo, propone una serie di riflessioni che potrebbero lasciare il segno.
L’occasione è propizia per formulare i più vivi auspici che la parresia e il diritto-dovere morale di verità sia prospettiva di vita per tutti.
L’autore
INDICE
Capitolo I
conoscenza e verità nella classicità
Significato etimologico e idiomatico di parresia
La conoscenza nel pensiero della classicità greca
Il mito platonico delle ombre di verità
La verità nel pensiero della classicità greca
La verità nel pensiero della classicità latina
Capitolo II
vedute prospettiche di conoscenza
Conoscenza della storia
Conoscenza nel pensiero dell’età moderna
Conoscenza e cultura
Conoscenza e verità nel pensiero nietzschiano
Conoscenza del sapere pratico
Conoscenza e stupidità
Conoscenza e ordine naturale
Conoscenza e ordine sociale
Conoscenza e ricerca della verità
Conoscenza della personalità
Conoscenza di sé e degli altri
Nosce te ipsum
Capitolo III
vedute prospettiche di verità
In linea generale
Cognizione e verità
I valori del vivere civile e della verità
Realtà di tutti i tempi
Sistema educativo e verità
Educare i giovani a dire la verità
Classe dirigente e verità
Inclinazione alla verità
Inclinazione alla menzogna e alla bugia
Inclinazione ad occultare la verità
Verità e violenza
Verità e amicizia
Verità e libertà
Verità fattuali e verità politiche
Verità e dialettica politica
Verità nella malattia
Verità e paternità delle notizie
Verità nel rapporto di coppia
Magna est vis humanitatis
Capitolo IV
profili e ombre di verità
Profili primari di verità
Profili complementari di verità
Le verità preconfezionate e il dubbio
La teoria della doppia verità
Verità e opinione personale
Verità e opinione pubblica
Instaurare un chiaro rapporto con la verità
Negazione della verità e dei valori
Nichilismo filosofico, difetto di prospettiva etica
Progressismo, conservatorismo e verità
Utilitarismo, relativismo e verità
Capitolo V
verità e fede
Quadro delle fonti della Chiesa cattolica
Educare alla legalità
Cenni generali sulle religioni
Il messaggio cristiano e le mistificazioni politiche
Quid est veritas?
Coscienza e verità
Rapporti tra Stato e Chiesa
Senza verità non c’è libertà
La forza della verità nel pensiero gandhiano
La forza della verità nel pensiero cristiano
Mala in terris
Capitolo VI
informazione mediatica e verità
Mass media
Stampa e televisione
Norme positive e deontologiche
Oggettività della stampa
Sondaggi di opinione e intrattenimenti televisivi
Rapporto libertà-verità nell’informazione mediatica
Le peculiarità del quotidiano
L’alto prezzo della comparsa in televisione
Capitolo VII
politica e verità
Politica, democrazia e verità
Auctoritas, non veritas facit legem
Libertà e verità
Monopolio della politica e verità
Ipocrisia e verità
Indirizzi politici e qualità politiche
Binomio verità e potere
Binomio virtù e politica
Verità e spacciatori di «non verità»
Azione politica e verità fattuale
Azione politica e verità effettiva
Doppie verità e mezze verità politiche
Anime nere della politica
Capitolo VIII
arte politica e pseudo verità
Democrazia ibrida e difettosa
Partiti politici e ius italicum
Pseudo verità politiche
Apparenza e verità
Diffuso senso di illegalità
Maturazione di una coscienza morale ed etica
Maturazione di una coscienza sociale
La questione morale
L’oscuro mondo del diavolo
I cattolici impegnati in politica
Capitolo III
vedute prospettiche di verità
In linea generale
Cognizione e verità
I valori del vivere civile e della verità
Realtà di tutti i tempi
Sistema educativo e verità
Educare i giovani a dire la verità
Classe dirigente e verità
Inclinazione alla verità
Inclinazione alla menzogna e alla bugia
Inclinazione ad occultare la verità
Verità e violenza
Verità e amicizia
Verità e libertà
Verità fattuali e verità politiche
Verità e dialettica politica
Verità nella malattia
Verità e paternità delle notizie
Verità nel rapporto di coppia
Magna est vis humanitatis
In linea generale
Lo scrittore francese Gustave Flaubert (1821-1880) compendia l’idea di «vedute prospettiche di verità» nel seguente splendido aforisma:
«quando si guarda la verità solo di profilo o di tre quarti la si vede sempre male; sono pochi quelli che sanno guardarla in faccia».
Nel presente Capitolo si avrà modo di sviluppare alcune importanti vedute prospettiche di verità, costituenti l’habitus mentis, ovvero il modo di pensare e ragionare, formatosi nella società occidentale per effetto delle particolari abitudini di vita.
Si intende prendere il via dal pieno rispetto della dignità umana, a riguardo della quale il vocabolario Treccani fornisce la seguente definizione: «la condizione di nobiltà ontologica e morale in cui l’uomo è posto dalla sua natura umana e, insieme, il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a se stesso». In tema di dignità umana, va precisato che tutte le persone meritano rispetto incondizionato, senza distinzione di sesso, razza, nazionalità, religione, età, cultura, stato di salute, condizione sociale, opinione politica.
Ma il pieno rispetto della dignità umana presuppone anche rapporti umani basati sulla «verità», nonché su altri valori morali, quali giustizia, libertà, uguaglianza, valori che costituiscono una condizione essenziale per un’ordinata vita sociale.
A riguardo dei rapporti umani, Papa Francesco, nel discorso tenuto al Consiglio d’Europa in data 25 novembre 2014, ebbe a puntualizzare: «Abbiamo di fatto troppe cose, che spesso non servono, ma non siamo più in grado di costruire autentici rapporti umani, improntati sulla verità e sul rispetto reciproco».
Ed infatti, i rapporti personali e di interazione con altri che si basano sul cinismo, sull’astuzia e sull’inganno sono indice di una licenziosa e dissoluta conduzione di vita e, spesso, di una disturbata interiorità che rende difficile la stessa convivenza umana e sociale.
L’insigne studioso di fenomeni umani e sociali Adriano Paoli, con acutezza di ragionamento scrive che «vivere nella verità richiede una solida educazione a livello intellettuale e soprattutto una profonda formazione a livello della volontà e degli affetti …», presupposti non certo facili da realizzare, ma se non compiamo questo sforzo finiamo per degradare la nostra stessa dignità umana.
Inoltre, conditio sine qua non per «vivere nella verità» è l’incessante coltivazione dell’amore, manifesto ed effettuale, ciò che, a sua volta, esclude a priori qualsiasi asservimento esteriore ed implica la piena libertà della mente, ossia la libertà interiore.
Sul valore assoluto della verità, il filosofo Giordano Bruno (1548-1600) ci ha lasciato un appassionato aforisma, che è un inno della parresia, l’evocazione e magnificazione del pensiero euripideo della schiettezza e franchezza nel parlare:
«la verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose; è sopra tutto, con tutto, dopo tutto (…). Sopra tutte le cose dunque è la verità» (Spaccio de la bestia trionfante, 1584)
Occorre peraltro tenere presente che nelle interazioni sociali verità e schiettezza, quali grandi qualità della persona, in talune particolari circostanze esigono riserbo, accortezza e diplomazia, per non scalfire la sfera privata di qualcuno o per non arrecare offesa a qualcuno.
In quest’ottica, il detto proverbiale medievale cum dixeris quod vis, audies quod non vis – se dici quello che pensi ascolterai quello che non vorresti, adattamento di un topos della letteratura latina (Plauto, Pseudolus, 1173; Terenzio, Andria, V, 4, 17), invita a riflettere prima di parlare, a fare attenzione a come si parla, per non doversene poi pentire (amplius, cfr. la voce: Conoscenza della personalità, Capitolo II).
A questo riguardo, si richiama il fermo monito del filosofo austriaco Ludwig Josef Johann Wittgenstein (1889 – 1951):
wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen
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su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere
|
Il monito di Wittgenstein è riferibile alle varie branche della scienza ed indica che tutto ciò di cui siamo all’oscuro, che non comprendiamo o che conosciamo solo in parte, è proprio ciò di cui si deve tacere perché poco o nulla sappiamo.
Quanto poi alla «libertà di espressione», che talvolta ci pigliamo, la copiosa tradizione proverbiale e i numerosi detti popolari ci fanno capire che la parola è uno strumento prezioso quanto pericoloso; si pensi alla forte seduzione della parola e alla sua forza di aprire orizzonti inimmaginabili.
Non dobbiamo poi sottovalutare il valore e l’importanza del significato o dei possibili significati che può assumere la parola, o attribuibili alla parola, da cui la saggezza popolare ha tratto qualche suggerimento, come:
- parlare solo per lo stretto necessario;
- talora non è meno eloquente il tacere del parlare;
- meglio ascoltare che parlare molto;
- spesso per l’uomo il tacere è il più saggio dei pensieri;
- il silenzio per i saggi è una risposta;
- parlare franco e schietto è una preziosa qualità della persona;
- parlare in modo chiaro, senza infingimenti, come fanno le persone semplici, è sempre apprezzato;
- chi dice quel che vuole, ode quel che non vorrebbe.
Merita un breve cenno anche la stessa idea di «libertà di parola», concetto questo efficacemente compendiato nel luogo tacitiano: rara temporum felicitas ubi sentire quae velis, et quae sentias dicere licet – tempi felici, anche se rari, sono quelli in cui è lecito pensare ciò che si vuole e dire ciò che si pensa (Tacito, Historiae, I, 1, 19), da cui si può desumere che la libertà di pensiero e di espressione è esclusa nei tempi di dittatura, mentre è propria dei tempi di democrazia, ma si può anche desumere che i poteri forti temono la forza dirompente del pensiero e dell’espressione.
Da notare però che il dire tutto ciò che si pensa, in taluni casi, richiede coraggio in chi decide di farlo perché può comportare qualche rischio in termini di calo di fiducia o di incapacità di discrezione e riservatezza.
Vediamo ora i pro e i contro che potrebbero profilarsi spifferando tutto in alcune situazioni particolari.
Per chi si trova in posizione subordinata, spifferare tutto al proprio superiore potrebbe essere cosa giusta o sbagliata, a seconda dell’uso che ne fa quest’ultimo:
- è giusta quando il superiore sfrutta l’informazione in bonam partem, ossia quando gli serve per fare un conseguente buon uso del suo potere;
- è sbagliata quando il superiore sfrutta l’informazione in malam partem, ossia quando ha una reazione incongrua ed usa male il suo potere.
Se il delatore può prevedere o intuire una reazione in bonam partem del proprio superiore fa bene a rivelare tutto ciò che sa, mentre se è in grado di prevedere o intuire una reazione in malam partem fa bene a mantenere il riserbo.
Per chi si trova in posizione di responsabilità, spifferare tutto potrebbe rivelarsi giusto o sbagliato, a seconda dell’uso e degli scopi che si prefigge chi lo fa. In linea di massima:
- è giusto quando lo si fa per il bene comune rapportato all’intera comunità, coinvolgente aspetti di giustizia o valori radicati nella stessa, e in genere quando lo si fa a fin di bene, al fine di compiere una buona azione;
- è sbagliato quando lo si fa a fini di male o al di fuori del bene comune, della morale tradizionale, dell’onestà, della virtù, ed altresì al fine di assecondare particolari ideologie e teorie (materialismo, scientismo, economicismo, psicologismo, etc.).
Per chi esercita il potere politico, dire tutta la verità in linea generale è sempre giusto, anzi doveroso, in quanto si presume lo faccia per il bene comune, pur con l’adozione di opportune cautele quando venga scalfita la sfera privata di qualcuno o venga arrecata offesa a qualcuno.
Il precipuo dovere del politico di dire tutta la verità diviene esemplare quando, facendolo, rischia di perdere la popolarità, la maggioranza, il consenso. Peccato che siffatte condotte politiche siano solo ipotetiche nell’odierno scenario della politica.
Il concetto euripideo della schiettezza e franchezza nel parlare è lontano anni luce dalla parresia della dialettica politica contemporanea, che è falsa, ingannevole e illusoria.
Per tutti indistintamente, dire almeno a se stessi la verità, ossia avere il coraggio e la capacità di una severa autocritica, dovrebbe essere doveroso.
In questo delicato compito di dire a se stessi la verità e dell’autocritica dobbiamo fare appello alla nostra integrità morale e alla coscienza, che deve essere impressa in noi come una legge rigorosa.
In ultima analisi, per trarre giovamento, dobbiamo saper ascoltare la voce della coscienza, prestare attenzione ai suoi segnali, cogliere i suoi richiami, anche se poco piacevoli, come ci fa capire il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976) con il messaggio: «la coscienza parla unicamente e costantemente nel modo del silenzio».
Cognizione e verità
La classicità greca dedica ampio spazio ai processi di «cognizione», al funzionamento della mente, alle percezioni e immagini mentali, temi di ampio respiro e di vivo interesse anche per la scienza moderna.
Il termine «cognizione» è oggi assunto in diverse accezioni, connesse per lo più all’idea di apprendimento e al modo in cui si raggiunge la consapevolezza.
In genere, la «cognizione» è intesa come acquisizione di dati ed elementi di conoscenza, come apprendimento di nozioni e rudimenti in un settore particolare.
Più genericamente, per «cognizione» si intende avere la conoscenza di qualcosa, nel senso di avere le basi, i dati e gli elementi di padronanza di una determinata materia o di un determinato campo. Nell’uso comune, si dice anche della facoltà di comprendere, di rendersi conto di qualcosa e di sapersi orientare in conseguenza. Ad es., si parla di cognizione dei valori etici, di cognizione degli affari, di cognizioni letterarie, di cognizioni scientifiche, tecniche, etc.
La classicità greca dedica ampio spazio anche alla nozione di «verità» e sottolinea in particolare l’esigenza di ricercare incessantemente ciò che veramente è.
Nell’antica Grecia, la conoscenza della verità era considerata un bisogno fondamentale dell’anima ed il relativo concetto filosofico era espresso con il termine «alétheia», inteso come rivelazione dell’essere e, per converso, come attività volta all’identificazione del falso e alla confutazione dell’errore.
Per inciso, i filosofi greci Pirrone di Elide (ca. 365-275 a. C.) e Carneade di Cirene (ca. 214-129 a. C.), fautori dell’indirizzo filosofico dello scetticismo, mostrano un atteggiamento negativo di fronte alla possibilità di conoscere la verità (amplius, cfr. la voce: Verità e opinione personale, Capitolo IV).
Nella classicità latina, era diffusa l’idea che la verità è una sola, anche se può manifestarsi in molti modi, forme e profili diversi, mentre la menzogna ha tanti possibili volti.
Oggi, nell’accezione comune, per «verità» si intende la rispondenza piena e assoluta al vero, alla realtà delle cose e dei fatti. Quindi, conoscere la verità significa conoscere le cose come sono realmente, lungi dai travisamenti e dalle alterazioni.
Nel significato del Catechismo della Chiesa cattolica, «la verità consiste nel mostrarsi veri nei propri atti e nell’affermare il vero nelle proprie parole, rifuggendo dalla doppiezza, dalla simulazione e dall’ipocrisia».
Il tema della verità è ricorrente anche nella letteratura moderna.
Pirandello (scrittore e drammaturgo, 1867-1936) rileva che «nulla è più complicato della sincerità», mentre Oscar Wilde (scrittore irlandese, 1854-1900) scrive che «un po’ di sincerità è una cosa pericolosa e molta sincerità è assolutamente fatale», soggiungendo poi: «se si dice la verità si è sicuri, prima o poi, di essere scoperti».
Se il comportamento dell’uomo comune è quello descritto da Pirandello e da Oscar Wilde, cosa dobbiamo pensare del comportamento dell’uomo politico che, spesso e volentieri, considera la verità alla stregua di una mera opinione ?
E più in generale, cosa si può pensare del nostro mondo della politica che concepisce la verità come qualcosa di soggettivo e di opinabile e, nella migliore delle ipotesi, come le due facce di una moneta, quando invece la verità, come del resto la moralità, è oggettivamente una e unica e non può essere subalterna né della cultura del centrodestra né di quella del centrosinistra.
Il grande uomo politico indiano e alta guida spirituale Mohandas Karamchand Gandhi, conosciuto soprattutto col nome di Mahatma – grande anima (1869-1948), per descrivere la limitatezza della conoscenza e della verità, usa l’immagine del diamante, per far capire che «è una sola ma può avere molte facce», soggiungendo poi:
«dal nostro angolo visuale noi riusciamo a vederne solo una di queste facce; guai se ci illudiamo di vedere tutta la pietra preziosa».
Ciò non toglie che, pur nel rispetto dell’idea gandhiana, non si debba sforzarsi costantemente nella ricerca della verità, quale bene vitale che scaturisce dalla morale e dalla coscienza.
Perciò si dice che la ricerca della verità, in vista di una conoscenza sempre più vasta e profonda, è l’essenza dell’esistenza dell’uomo.
Se esaminiamo il rapporto tra cognizione e verità si può agevolmente riscontrare che l’aspirazione a voler conoscere qualcosa è un valore positivo, in contrapposizione alla stoltezza di non voler conoscere qualcosa che è invece una caratteristica nettamente negativa.
E tuttavia, se si mette a confronto una pluralità di valori, come ad es. amore, pace, giustizia, rettitudine, etc., con il valore della verità si può rilevare come i primi siano capaci di produrre un prorompente effetto emotivo nelle persone, mentre la seconda – specie se sgradita – non riesca in genere a stimolare intense emozioni ma spesso negative reazioni.
In filosofia, con riferimento all’indagine sul senso dell’esistere e dell’agire, oggi tale fenomeno si suole spiegare col fatto che le persone non nutrono un forte sentimento per il valore della verità, nel senso che in genere è poco sentito e apprezzato rispetto ad altri valori.
In altri termini, le persone dimostrano spesso indifferenza, scarso interesse e sensibilità, verso il valore della verità, finendo così per non essere tenuto nel debito conto.
Tale stato di cose conferma come, nel sentire comune dei nostri giorni, il valore della verità si denoti frequentemente come un valore freddo e privo di fascino rispetto ad altri valori, con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare.
Con riferimento a tale comune sentire, preme evidenziare che la freddezza verso il valore della verità, lo scarso interesse per la ricerca della verità, è una vera e propria stoltezza delle persone.
I moralisti e gli osservatori dei fenomeni sociali non esitano ad affermare che l’impegno della verità, così come quello della sincerità e della schiettezza, ovvero della parresia, sono virtù di pochi, che non rendono certo la vita facile a chi le possiede, ma tuttavia sono virtù da alimentare, in quanto denotano onestà e integrità d’animo, quali beni vitali che scaturiscono dalla morale e dalla coscienza.
I valori del vivere civile e della verità
L’etimologia del termine valore risale al latino valorem, da valere, nell’accezione di avere valore, avere pregio, essere forte, più il suffisso –orem che indica disposizione, stato.
Nell’antica Roma, il mos maiorum era il complesso dei valori insopprimibili e delle tradizioni costituenti il fondamento della morale tradizionale, della cultura e della civiltà, di cui il civis romanus doveva dare prova sia nell’attività politica che militare. Tale complesso di valori, profondamente radicati nella cultura dell’epoca, era compendiato nelle seguenti definizioni:
- virtus, intesa come carattere fermo, coraggio, forza morale, importante qualità da cui dipendeva l’onore personale e la dignità sociale;
- concordia, intesa come armoniosa collaborazione tra tutti gli ordini sociali;
- libertas, intesa come difesa degli interessi dello Stato, con prevalenza assoluta su quelli personali;
- fides, intesa come rispetto della parola data ed anche come condotta ideale in guerra e nei rapporti con altri popoli;
- iustitia, intesa come volontà di riconoscere e rispettare il diritto di ognuno;
- disciplina, che i militari dovevano mantenere nelle imprese militari;
- clementia, che i militari dovevano dimostrare verso gli avversari vinti;
- prudentia, che i militari dovevano dimostrare nel valutare le circostanze, anteponendo il bene dell’esercito e dello Stato alle ambizioni personali.
Sulle regole etiche e, più in generale, sulle regole universali dell’agire umano, non mancano puntuali quanto preziose indicazioni della classicità latina, tra cui per splendore e chiarezza fanno spicco quelle di Marco Aurelio (imperatore e filosofo romano, 121-180 d.C.), che ne ha elaborate una grande quantità. Questo filosofo romano (pagano) è prodigo di consigli e di insegnamenti di vita, frutto di saggezza e di esperienza, ed i suoi scritti brillano soprattutto per parresia, ossia per il modo franco e schietto di esporre le idee, i concetti, le riflessioni e la realtà delle cose.
Qui di seguito si riporta una piccola parte dei consigli e insegnamenti di vita marco-aureliani (tratti per lo più dal libro Ricordi), di palpitante attualità per ricchezza e pregnanza di contenuti:
- l’essere razionale se agisce secondo natura agisce anche secondo ragione;
- l’uomo che agisce in senso contrario alla verità combatte contro natura;
- dare sempre a ciascuno ciò che gli spetta secondo diritto o secondo il merito;
- tenere salda l’idea di vivere secondo natura;
- serbare sempre il ricordo di qualche personaggio che avesse praticato virtù;
- quando hai beneficato qualcuno hai fatto solo il tuo dovere, secondo natura non puoi aspettarti ricompensa; è un po’ come l’occhio per il fatto che vede e i piedi per il fatto che camminano;
- quale l’arte tua? Esser buono, meta che puoi raggiungere per mezzo di una preparazione intellettuale, uno studio profondo sull’universale natura, uno studio sulle caratteristiche proprie della costituzione umana;
- prediligi la semplicità di vita, la sobrietà in tutto ed abbi poche esigenze;
- devi saper scoprire e coordinare i principi fondamentali della vita;
- devi conservare la libertà morale, guardando a nient’altro che alla ragione;
- devi avere amore per la verità, la giustizia, il lavoro;
- viola un precetto di giustizia spesse volte l’uomo che non fa qualcosa; non soltanto colui che fa qualcosa;
- non dire nulla che sia contrario al vero, non far nulla contro giustizia;
- una sola cosa ha molto valore: trascorrere la vita secondo verità e secondo giustizia;
- in ogni aspetto della tua attività devi fare giustizia e in ogni tuo giudizio mantenere comprensione;
- dimostrare prontezza a compiere il proprio lavoro, unitamente a senso di responsabilità;
- provare ripugnanza non solo a commettere cattive azioni ma perfino a pensarle;
- mantenersi puro da passioni, da futili vanità e lontano da critiche;
- perseguire obbedienti la ragione, la legge della natura e il suo governo;
- i fatti conseguenti a un naturale svolgimento hanno in sé qualcosa di gradito e possono destare un senso di diletto;
- conviene evitare tutto ciò che è ozioso e vano, ma soprattutto la malignità;
- occorre effettiva disposizione a fare il bene ed evitare comunque il male;
- occorre ferma volontà di perseguire sempre il bene comune nella vita pubblica;
- occorre capacità di distinguere dove serva severità e dove indulgenza;
- occorre capacità di comprendere le ragioni degli altri e i punti deboli delle proprie;
- occorre evitare rivalità, invidia, sospetto, e simili altre cose che dovrebbero far arrossire;
- occorre sempre agire, parlare e pensare, come se fosse possibile che tu in quell’istante lasciassi la vita;
- occorre avere una giusta cura della propria salute;
- occorre esser pronto a mutar di parere se vi sia qualcuno di retto consiglio capace di staccarti da falsa opinione;
- ricorda che è segno di libertà il poter mutare opinione e tenere dietro a chi te ne fa opportuno avvertimento;
- ricorda che è proprio dell’uomo prendersi cura d’ogni uomo;
- ricorda che la tua volontà ha dei limiti e che non devi aspirare a cose impossibili;
- non essere offensivo o sospettoso, non stupirsi né turbarsi;
- non essere precipitoso né irresoluto, non essere abbattuto né sfiduciato;
- il più delle nostre operazioni e dei nostri discorsi non sono necessari, qualora venissero eliminati si avrebbe più tempo e più tranquillità;
- nella vita, quando si tratta di fare qualcosa, non vorrai essere maestro prima di essere stato discepolo;
- quando attendi a qualche operazione tieni conto che ciascuna ha un proprio valore e che si deve attendere alle singole cose secondo un proporzionato grado di valore;
- ininterrottamente e in ogni occasione devi sottoporre le tue impressioni a rapporti d’ordine fisico, a rapporti d’ordine morale, a rapporti desunti dal mondo razionale;
- sii propenso alla franchezza, alla mitezza, alla tolleranza, alla generosità, alla benevolenza, al perdono;
- mantieni il riserbo e non dare adito a calunnie;
- cerca di vivere come vuol la tua natura questi rimanenti anni di vita, quanti potranno essere;
- conserva il dominio di te stesso e la serenità in ogni circostanza;
- conserva te stesso semplice, buono, intemerato, dignitoso, sincero, amico del giusto, religioso, benigno, affettuoso, tenace nel compiere il tuo dovere;
- conserva disposizione al sentimento religioso;
- diffida dalle chiacchiere di ciarlatani e maghi;
- volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della loro precarietà, del loro scarso valore;
- vivi senza rancori e disponibile a riconciliarti con chi ti ha offeso;
- abbi comprensione verso gli incolti e verso chi si forma opinioni prive di fondamento scientifico;
- evita ogni forma di scaltrezza, di malignità, di ipocrisia e di invidia;
- evita di riprendere i sottoposti in modo offensivo;
- quanti che oggi ti innalzano con lodi, forse prestissimo, ti copriranno di improperi! Pensa quanto poco vale il ricordo, la gloria e qualsiasi altra cosa;
- pensa come in vicinanza di morte nel corpo e nell’anima ci si debba disporre;
- non disprezzare la morte ma adattati con animo tranquillo, ritenendolo uno dei fatti che natura esige.
L’imperatore-filosofo Marco Aurelio non si limita a detti insegnamenti di carattere generale ma va ben oltre e, addentrandosi accentuatamente nel campo filosofico, scrive: «tutto nel mondo è destinato a svanire con rapidità, segue tale destino anche la sostanza stessa dei corpi e, nel tempo, pure il loro ricordo, tutto è destinato a divenire illusione, specie per chi tende a crearsi un’irreale visione della vita». Addentrandosi poi nel campo spirituale, scrive: «bada bene: non potrai agire come devi nel regno umano senza un riferimento continuo a quello divino».
Per sottolineare l’importanza di agire secondo coscienza e di seguire i valori etici del vivere civile, costituenti il patrimonio spirituale e morale, Marco Aurelio puntualizza: «colui che non avverte i moti della propria anima è inevitabile che sia infelice» (amplius, cfr.: Regole dell’agire umano e Canoni regolatori dell’agire umano, Schegge di vita etica, Volume 2, pag. 161 e seguenti, MJM Editore, 2011).
≈
Nella mutata società odierna i valori umani sono intesi come l’insieme delle qualità morali altamente positive in ambito spirituale, intellettuale, professionale, così da rendere una persona degna di stima.
I valori umani e le qualità morali, a loro volta, rappresentano una componente essenziale dell’etica e costituiscono un comune terreno di incontro, seppure con qualche diversificazione nelle varie società.
Nell’ambito dei valori umani e delle qualità morali figurano i valori del vivere civile, come ad es. la pace, la libertà, la giustizia, l’onestà, la rettitudine, la coerenza, etc.
Ciò premesso, si intende fare qualche riflessione sulle qualità morali, incentrando l’attenzione sui valori del vivere civile e sul valore della verità, avvertiti in ambito privato, per accennare poi ai negativi risvolti causati dalla carenza di valori in ambito pubblico.
Per sottolineare l’enorme importanza dei valori basti dire che senza di essi le persone cadono nel relativismo e ciò, a lungo andare, porta ad una stagnazione della qualità della vita e, quindi, all’incapacità di migliorare significativamente la società.
I «signori della politica», ahinoi, non hanno mai mostrato un reale interesse a infondere i valori fondamentali del vivere civile e a instillare l’idea della buona reputazione, iniziando con l’imporre l’insegnamento dell’educazione civica e dell’etica nelle scuole di ogni ordine e grado.
In conseguenza di ciò, oggi trapelano carenze di vario ordine nella società, quali ad es.: mancanza di idealità e di spiritualità; scarsa conoscenza dei valori umani universali; idea non corretta di democrazia e di giustizia sociale; idea falsata di libertà; idea falsata di pari dignità uomo – donna; idea falsata di famiglia; scarsa conoscenza dei principi etici e umanistici; scarso senso di responsabilità civica, etc.
Inoltre, ben poco si è fatto per incentivare gli studi e la cultura e così, oggi, il nostro Paese è pesantemente sottodotato di laureati e, anche per effetto di ciò, rischia di allontanarsi sempre più dagli altri Paesi occidentali (l’OCSE ha collocato l’Italia al 34° posto su 36 per numero di chi accede ad un titolo di studio universitario). Dati alla mano, passiamo per un Paese di ignoranti, pur detenendo il più alto patrimonio dei beni culturali.
Il fenomeno diventa ancora più angosciante se pensiamo che molti laureati sono costretti ad emigrare per trovare un’occupazione dignitosa. Fare nuove esperienze all’estero può essere importante per la propria formazione, ma la cosa assume connotazioni negative per una nazione quando, una volta fatta una o più esperienze formative all’estero, non c’è modo di convincere i giovani a ritornare nella propria terra perché non attratti da prospettive credibili o perché la fiducia sociale nelle istituzioni e nei «signori della politica» è molto bassa.
I nostri «signori della politica», a cui sono imputabili tali inadeguatezze e carenze, se ne sono ben guardati dal dare pratica e generalizzata attuazione ai dettati dell’art. 34 della Costituzione, secondo cui «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi», ed altresì a quelli dell’art. 3 della stessa Costituzione che impone la «rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale».
Per inciso, si ricorda che la Costituzione stabilisce il modello organizzativo della società, fissa i principi di base, i diritti inderogabili, inviolabili e insopprimibili, nonché i doveri ai quali non ci si può sottrarre.
Ma ormai l’hanno capito anche i più sprovveduti, e del resto la storia post Costituzione repubblicana lo dimostra ampiamente, che gli istrioni «signori della politica» sono refrattari alla Costituzione. È ben vero che quest’ultima contiene molti dettati vaghi, generici, ambigui, compromissori, tali da non dare nessun affidamento di applicabilità, ma ciò non esime il Legislatore dal dare interpretazione e pratica attuazione in bonam partem, né tantomeno lo esime dall’ignorare che sono pur sempre norme costituzionali che esigono compiuto adempimento e massimo rispetto.
Il mal celato intento dell’ottusa politica degli ultimi sessanta anni di detti signori è stato quello del quieta non movere, vale a dire di lasciare le cose come stanno, di non prendere iniziative per chiarire e dar corso agli enigmatici dettati costituzionali, consci che qualsiasi innovazione può contrastare con le demagogie politiche oppure può nuocere sotto il profilo elettoralistico. In via ufficiale, con faccia tosta, fingono di prodigarsi, a parole, nella prospettazione di innovazioni a destra e a manca, con la riserva mentale di mantenere l’attuale stato di immobilità sociale e politica.
Come se non bastasse, con la stessa faccia tosta, gli istrioni «signori della politica», abili venditori di fumo, pur consci che molti articoli della Costituzione si limitano ad esprimere ipotetici scopi e intenti politici, in mala fede hanno voluto ugualmente creare il mito della «più bella Costituzione del mondo», con i risultati deludenti che sono sotto gli occhi di tutti.
In pratica, abbiamo una Costituzione che non brilla certo per concretezza, anzi si caratterizza per finzione, indeterminatezza e superficialità, specie a riguardo di molti diritti sociali, una Costituzione che ha dato il via ad insostenibili centri di spesa pubblica, alla creazione di una miriade di Enti pubblici inutili, tutti dotati di comode poltrone politiche, ad una farraginosa legislazione che ha generato un’enorme confusione giuridica e amministrativa, ad una burocrazia inutilmente complicata, inefficiente, ottusamente ligia a regole arcaiche.
Un esempio eclatante di finzione lo offre lo stesso primo articolo della Costituzione, ove è solennemente affermato che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», enunciazione chiaramente ispirata al sistema delle ex repubbliche sovietiche e priva di qualsiasi effettività in un sistema ad economia liberale.
In ogni caso, pur nelle sue limitatezze e difetti, la Costituzione va difesa e rispettata da tutti, in primis dai «signori della politica» e dai poteri costituiti, diversamente non potrà mai essere garantito il funzionamento democratico dello Stato.
Nei fatti, sono proprio i «signori della politica» che, approfittando dell’indeterminatezza e superficialità della Costituzione, specie a riguardo di molti diritti sociali, non esitano a disattendere scientemente le regole costituzionali.
La facilità con cui detti signori disattendono la Costituzione, e comunque il poco rispetto nutrito per la medesima, fa pensare che hanno probabilmente creato il mito politico della «più bella Costituzione del mondo» perché, di fatto, è facile disattenderla, così come, di fatto, è facile mettere in discussione anche le sentenze della Consulta.
A riguardo di queste ultime, il dubbio iperbolico è destinato ad aumentare se consideriamo che i nostri «signori della politica», specie quelli di sinistrorso pensiero, ci hanno perentoriamente inculcato il principio che «le sentenze si rispettano», ma forse intendevano riferirsi solo a quelle politicamente di comodo.
Non sono degne di alcuna considerazione le giustificazioni di ordine morale addotte da detti signori per svincolare dai dettati costituzionali o per disattendere le sentenze della Consulta, perché in fatto di moralismo e onestà devono ristabilire la situazione incominciando ad eliminare gli interessi delle lobby, a ovviare agli sprechi per scopi elettorali, o per timori elettorali estromessivi, nonché a ridurre drasticamente i loro privilegi e le loro vergognose prebende.
Tutto ciò dimostra che lo Stato è ingovernabile con gli attuali istrioni «signori della politica».
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Dopo questa breve digressione, si ritorna al tema di fondo dei «valori del vivere civile» per significare che poco o nulla hanno fatto i «signori della politica» per incentivare la meritocrazia, ossia per la valorizzazione delle persone, con l’adozione di sistemi che riconoscano i meriti e le capacità individuali. Al contrario, hanno sostenuto una burocrazia smisurata e inefficiente, dove da un lato emergono privilegiati e camarille e, dall’altro, assenteismi e favoritismi e dove non mancano sprechi di vario genere.
In cifre, il nostro apparato burocratico si compone di circa 3,5 milioni di dipendenti pubblici che, in rapporto al numero di abitanti, è sei volte superiore a quello degli Stati Uniti d’America, a cui si aggiunga lo sterminato numero dei dipendenti dalle migliaia di «società partecipate», che nessuno è in grado di quantificare.
Il nostro non è solo il Paese degli incontenibili impieghi pubblici, dei clientelismi, della corruzione generalizzata, della mafia, dei furbetti di professione, dell’evasione fiscale, della giustizia lenta e dove prevale la ragione del più forte, ma si delinea anche come Paese dell’immobilismo, dissipatore di risorse e arcaico nei suoi modi di essere.
La complessa realtà della globalizzazione in cui viviamo postula, al contrario, un evoluto modello di democrazia e una società fondata sui valori del vivere civile, che abbia come fine la conoscenza e la verità, mentre nella realtà poco o nulla si è fatto e si fa in questa direzione, poco o nulla si è fatto e si fa per costruire una società con valori condivisi, che uniscano e non separino i cittadini.
La società della globalizzazione postula cittadini sempre più istruiti, consapevoli che istruzione e benessere sono strettamente interrelati e che democrazia ed ignoranza non si possono accordare.
Le gravi responsabilità di tale disastro politico e morale, come detto sopra, non possono che pesare come un macigno sulle coscienze di tutti i «signori della politica» avvicendatisi in questi ultimi 150 anni, che se ne sono ben guardati, tra l’altro, dal consacrare il principio secondo cui Scuole e Università fungano da veri istituti educativi e non solo formativi.
Cosa riserverà il futuro al nostro «Belpaese» (cfr., Dante, Inferno, XXXIII, 80), a fronte della presente angosciosa situazione, chi scrive preferisce lasciarlo all’immaginazione del lettore.
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Nell’ambito dei «valori del vivere civile», non può mancare un cenno ai «valori propri della verità» e al significato dei medesimi in campo scientifico, morale e spirituale.
I valori della verità, secondo gli studiosi, possono assumere valenze di varia natura, riconducibili principalmente alle seguenti forme:
- valori epistemici, riguardanti la conoscenza scientifica e i procedimenti deduttivi delle scienze esatte;
- valori morali, intesi come il complesso dei principi morali, delle norme e dei costumi di vita, cui dovrebbero conformarsi le azioni umane;
- valori pratici, volti a permettere di conseguire risultati pratici, come: il rispetto della vita, della persona, della dignità umana; l’altruismo, la solidarietà e fratellanza tra tutti gli uomini; l’integrità morale, che comprende onestà, verità, sincerità, lealtà, trasparenza.
Se detti valori trovassero pratica applicazione nei quotidiani comportamenti si potrebbero creare condizioni migliori di vita, se non condizioni ideali di vita, si potrebbe star bene insieme agli altri e la nostra esistenza, pur nella sua precarietà, potrebbe essere più vivibile per tutti.
È vivamente auspicabile un totale cambiamento di rotta da parte dei «signori della politica», un serio impegno delle pubbliche istituzioni e uno sforzo da parte di ognuno in questa direzione, avendo presente che le cattive condotte e le cattive azioni di oggi, sia in ambito pubblico che privato, sono destinate a segnare profondamente il domani e questo dovrebbe costituire motivo di profonda riflessione da parte di tutti.
Nel comune modo di pensare e nell’immaginario collettivo dei secoli scorsi era molto sentito il «valore della verità», al punto da far passare in seconda posizione il valore della persona.
Nell’invertita situazione odierna, sembra divenuto normale dissimulare e chi non lo fa con la dovuta maestria potrebbe subire dannose ripercussioni sul normale svolgimento della propria attività.
Insomma, ai giorni nostri, caratterizzati da ipocrisia, apparenza e finzione, oltre che da un crollo dei valori fondamentali del vivere civile, è sempre più difficile parlare di «valori della verità» ed anche il «dire la verità» sic et simpliciter è spesso percepito come fattore di debolezza invece che di merito.
Il pensiero euripideo della schiettezza e franchezza nel parlare, della parresia veritiera e non falsa (cfr. Capitolo I), sembra lontano anni luce dalla cultura contemporanea.
Nella società attuale prevale una «cultura conformista» che, oltre a scoraggiare il diffondersi di un pensiero etico indipendente, mostra una totale chiusura verso i contributi liberi e personali per lo sviluppo e il miglioramento della società.
Al riguardo, il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy (1917-1963), in un discorso all’ONU nel 1961, dichiarava che «il conformismo è il carceriere della libertà e un grande nemico dello sviluppo».
Il fenomeno non è di poco conto se si pensa che la «cultura conformista», a lungo andare, può causare la perdita dei valori in cui si crede, ma anche la propria dignità, identità e personalità ne restano menomate.
Si prova grande amarezza nel dover constatare come la «cultura conformista» sia oggi molto diffusa nel nostro Paese, a differenza dei più progrediti e civilizzati Paesi d’oltralpe e d’oltreoceano, ove le cose vanno in direzione opposta.
In tali Paesi, infatti, è molto accentuato l’anticonformismo, il valore della dignità e della buona reputazione, così come sono molto sentiti i valori fondamentali del vivere civile, in primis quello della verità, soprattutto a livello di classe politica e dirigente.
La stima pubblica e il merito sono caratteristiche essenziali e irrinunciabili per poter aspirare a pubbliche cariche in detti Paesi e, al minimo fallo o mancanza, non si esita a esigere l’immediato allontanamento della persona dalle pubbliche istituzioni.
I fatti dimostrano che nel nostro Paese questo genere di cultura manca del tutto, soprattutto negli ambienti politici ove, stoltamente, si preferisce seguire una linea di massima tolleranza, con le angoscianti conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
È la stessa «cultura conformista» che induce alla massima tolleranza, cosicché sono oggi poco sentiti e valutati i valori della dignità e della buona reputazione, al punto che la credibilità dei «signori della politica» non è messa in discussione finché qualcuno degli stessi non finisce dietro le sbarre.
Realtà di tutti i tempi
Nel pensiero della classicità latina la condotta ideale dell’uomo probo è quella di aperto vivere voto – vivere a voti scoperti (Orazio, Epistulae, I, 16, 60; Seneca, Epistuale, X, 4, 5; Persio, II, 7; Giovenale, Satire, VI, 538-539), vale a dire che l’uomo deve vivere improntando i propri rapporti e comportamenti sulla lealtà e correttezza, in modo da non dover mai arrossire del proprio operato.
All’ideale di aperto vivere voto fa da corollario l’adagio senecano: assuescere dicere verum et audire – dobbiamo avvezzarci a dire e udire soltanto la verità (Seneca, Epistole, 68), da cui emerge con forza espressiva che occorre assumere un atteggiamento morale fondato sulla determinazione di non mentire, sull’autenticità dei sentimenti e sulla sincerità. Tale adagio senecano riflette il pensiero euripideo che esprime il diritto-dovere morale di dire la verità, compendiato nel termine parresia (cfr. Capitolo I).
La sincerità e la verità nei rapporti umani è efficacemente rimarcata anche dal filosofo bizantino Ammonio di Ermia (ca. 440-523 d.C.) con la celebre frase: amicus Plato, sed magis amica veritas – Platone è mio amico ma mi è più amica la verità, da cui si evince che la verità deve prevalere sulle idealità e sui sentimenti.
Il concetto trae origine da un passo dell’Etica nicomachea di Aristotele (ca. 384-322 a. C.), dove il grande filosofo greco afferma «benché entrambi mi siano cari, è sacrosanto privilegiare la verità», facendo capire che a volte si devono sacrificare anche le amicizie personali se contrarie alla verità.
I classici del pensiero antico finiscono però per ammettere, realisticamente, che l’alterazione della verità sembra come una componente insita in ogni forma di azione e di organizzazione umana e politica.
Ed infatti, fin dai tempi antichi, l’alterazione della verità, il mentire, il dire bugie, si è rivelato un topos proprio dell’uomo, che lo ha fatto diventare un passe-partout per il successo sociale, professionale ed economico.
Si può mentire per calcolo, per interesse o per viltà, ma si può mentire anche per amore, per affetto, per timidezza, per non dare una risposta maleducata, per non perdere un amico, per quieto vivere, per coprire cose che recherebbero solo dolore o preoccupazione a qualcuno.
Per una ragione o per l’altra siamo portati a mentire, spesso siamo ipocriti, anche solo per guadagnarci la fiducia o la benevolenza di qualcuno, non solo nei rapporti con gli altri ma anche con noi stessi, al lavoro, con gli amici, con i genitori, etc.
Ma se è vero come è vero che il mentire è un atto intenzionale teso ad alterare la verità, chi mente deve essere consapevole che prima o poi potrà cadere vittima delle proprie stesse fantasticherie.
In ogni caso, al di là di tutto, giova sempre chiedersi se conviene coltivare false personalità, se fingere o alterare la verità migliora veramente la nostra vita, se le menzogne hanno positive conseguenze, se comportano concreti vantaggi. Dal momento che la risposta a questi interrogativi non può che essere negativa, perché mentire ?
A questo proposito, studiosi dei comportamenti umani e psicologi fanno notare come dire la verità, soprattutto nei momenti difficili della propria vita, accettandone le conseguenze, talvolta, possa aiutarci a stare meglio e a farci sentire più forti.
Gli stessi consigliano altresì di riflettere sui momenti in cui non siamo stati sinceri con noi stessi o con gli altri ed ogni qualvolta sia possibile è necessario ammetterlo con le persone coinvolte, facendo rettifica alla prima occasione utile.
È senz’altro un’utile indicazione che ci garantisce una migliore esistenza, che ci aiuta a vivere realisticamente e serenamente, a stabilire un cristallino rapporto con la propria interiorità.
Viceversa, si rivela un’indicazione totalmente vana nella vita pubblica dove, ahinoi, la distorsione della verità, o la parziale rivelazione della stessa, è ormai divenuta praticamente una costante, complici senza attenuanti i «signori della politica», gli organi istituzionali, gli organi di informazione, le organizzazioni sindacali, le sedi di potere in generale (amplius, cfr. i Capitoli VI, VII, VIII), per cui si può ben dire che
nella vita pubblica verità e parresia non vanno in compagnia
A questo proposito, l’illustre filosofa e saggista Lorella Cedroni (1961-2013 ha scritto che ai nostri giorni «la menzogna infesta i dibattiti televisivi, le pagine dei giornali, la politica», e termina poi affermando sarcasticamente che, allo stato dei fatti, è «la linfa della storia, il succo della cronaca, il cuore dell’economia e il motore della politica».
Ed è proprio per questi motivi, si può chiosare, che la storia è deformata, che la cronaca è alterata, che l’economia è fiacca, che la politica è irrimediabilmente corrotta e putrida.
Non c’è da illudersi, se le sedi di potere non muteranno linea di condotta, non cambieranno radicalmente rotta, la situazione è destinata al peggio.
Sistema educativo e verità
In tema di educazione, preme ricordare il pensiero dello storico, scrittore, politico e filosofo italiano Niccolò Machiavelli (1469-1527) che scrive testualmente: «né si può chiamare in alcun modo con ragione una repubblica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù; perché li buoni esempli nascono dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi» (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio).
Nella spiegazione del vocabolario Treccani (Thesaurus), la parola «educazione», nel suo senso più generale, indica «l’attività di educare, cioè di aiutare lo sviluppo di capacità e attitudini di una persona, di affinarne la sensibilità, correggerne il comportamento e trasmetterle elementi culturali, estetici e morali».
Il processo di educazione, attraverso il quale i soggetti sviluppano facoltà e attitudini intellettuali, sociali e fisiche, avviene dapprima in famiglia, quindi all’interno delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, dove la personalità umana viene formata per essere poi integrata nella società.
Se tale processo è difettoso o carente, qual è attualmente nel nostro Paese, non possiamo che aspettarci forme di ignoranza, di inciviltà, di maleducazione, di villania, di degradazione, di imbarbarimento.
Nella situazione in cui viviamo si ha la netta sensazione che la scelta di fondo degli istrioni «signori della politica» sia quella di dare scarso peso alla cultura, all’educazione e alla formazione dei giovani, come dimostrano del resto gli scarsi fondi finanziari messi a disposizione, per cui si è venuta a creare nelle masse popolari una sorta di vacuità sociale, finendo per renderle inconsciamente succubi del potere.
In buona sostanza, la noncuranza e l’indifferenza dimostrata da detti signori fa pensare che l’imperativo politico sia quello di mantenere le masse popolari nell’ignoranza, onde poterle abbindolare senza che se ne rendano conto.
Nella folle idea di detti signori, è meglio che i cittadini rimangano nell’ignoranza, che vivano nell’ignoranza della verità, che non conoscano la nuda e cruda realtà, motivando tale loro idiozia mentale col fatto che le masse popolari non sarebbero in grado di capire e di accettare le loro birbonate.
In questo loro turpe gioco si avvalgono anche dei mezzi di informazione di massa che, penetrando facilmente in ogni casa, sono potenzialmente in grado di condizionare e rimbecillire larghi strati di popolazione.
Gli uni e gli altri prospettano la realtà solo in parte o in modo distorto e molte cose non le dicono o le presentano deformate, perché sanno troppo bene che un popolo ignorante è facile tenerlo sotto controllo.
A riguardo del nostro retrivo e malridotto sistema Italia, ostinatamente conservato dai «signori della politica», sappiamo come il medesimo sia costituito da un insieme di riforme, pseudo riforme e controriforme, mancanti di filo conduttore e di logica, contrassegnate per lo più da ideologie, concezioni retrive o da motivi di consenso elettorale, piuttosto che da oggettive innovazioni e/o miglioramenti dell’impianto complessivo.
Tra le principali carenze del sistema, in parte residuate dalla cultura dei tempi che furono ed ora scientemente mantenute tali per convenienza politica, è facile cogliere (amplius, cfr. la voce: Partiti politici e ius italicum, Capitolo VIII):
- il mancato allineamento, sotto ogni profilo, ai più avanzati sistemi dei Paesi facenti parte della Comunità europea;
- l’incapacità di smantellare l’attuale sistema bicamerale, conservando il solo Senato e con riduzione del numero dei senatori;
- l’incapacità di ridurre drasticamente le pubbliche istituzioni e il numero dei relativi consiglieri, con relativo seguito e grande dotazione di mezzi;
- la pretesa di conservare il monopolio dell’educazione statale, quando invece, in un autentico sistema democratico, si dovrebbero appoggiare le scuole private o paritarie, riconoscendo pari diritti e dignità;
- la mancata introduzione dell’educazione civica, come materia obbligatoria, nelle scuole di primo grado e dell’etica privata e pubblica nelle scuole di secondo grado;
- la mancata istituzione della facoltà di etica presso le varie Università.
Tra i principali difetti di fondo dell’attuale sistema educativo che, come detto sopra, è un residuato dei tempi che furono, figura anche l’idea di creare negli allievi una «cultura conformista», anziché una capacità di analisi critica, scoraggiando così il diffondersi di un pensiero etico indipendente.
È ben vero che un siffatto genere di insegnamento di pensiero etico indipendente è destinato a provocare differenze concettuali irriducibili, soprattutto tra ideologie di destra e di sinistra, tra credenti e non credenti o tra appartenenti a fedi diverse, ma è altrettanto vero che l’ampliamento degli orizzonti culturali, a medio termine, comporta un arricchimento tale da superarle con facilità, creando le condizioni ottimali ai fini di una civile convivenza.
In altre parole, i contrasti concettuali tra chi fa prevalere un’etica dipendente da una cultura di destra o di sinistra, da credente o non credente, da conformista o non conformista, pur divergenti, non saranno motivo di conflitto irriducibile, in quanto la cultura e la civile convivenza portano al rispetto delle diverse posizioni e prospettive etiche.
Il fatto che l’attuale impianto educativo, in tempi di democrazia e di libertà, escluda l’insegnamento dell’educazione civica e di un’etica indipendente dimostra l’arretratezza dell’intero sistema, con gravi ripercussioni sulle condizioni di vita, sullo sviluppo culturale, sociale ed economico.
Si ritiene che la scuola non potrà mai considerarsi di qualità se l’educazione civica e l’etica non figurano tra le ordinarie materie di insegnamento.
L’attuale deprimente miopia politica nell’individuazione degli obiettivi primari denota un inconcepibile oscurantismo culturale e sociale degli istrioni «signori della politica».
Al disinteresse per le riforme legislative nel senso precitato, alla totale noncuranza fin qui dimostrata da detti signori, alla pervicace conservazione dello status quo, di fronte ad un problema di enormi proporzioni, qual è quello dell’educazione, si aggiunge un degenerato indottrinamento imposto dall’autorità governativa, che fa pensare ad una vera e propria perversità politica, al fine di:
- accollare al corpo docente la funzione di portavoce del potere governativo;
- impegnare il corpo docente ad operare solo sulla base di omologati criteri di insegnamento;
- assoggettare permanentemente il corpo docente all’indottrinamento governativo che, nell’insegnamento, contempla l’obbligo di accordare valenza soltanto residuale ai valori etici e della verità;
- omologare l’insegnamento scolastico secondo criteri di astrattezza, teoricità, indeterminatezza;
- omologare un impianto scolastico che sostenga un sistema formativo, ignorando totalmente quello educativo;
- omologare i programmi ministeriali di insegnamento al pensiero conformista, in modo da distogliere l’attenzione dall’operato della politica e impedire la reale comprensione delle vicende politiche;
- far maturare negli allievi forme omologate di pensiero, unitamente a condotte di obbedienza e di passività, perché da adulti non diventino persone dissenzienti;
- imporre una disciplina di studio comportante un immagazzinamento passivo di nozioni e di conoscenze totalmente avulse dalla realtà contemporanea e, soprattutto, avulse dal mondo della politica;
- adottare tecniche di lavaggio del cervello tali da far apparire la realtà contemporanea sana e pulita, anche se il marciume politico, il decadimento e la corruzione morale, è sotto gli occhi di tutti.
In buona sostanza, l’attuale impianto di indottrinamento imposto dall’autorità governativa mira ad omologare l’intero corpo docente delle scuole di ogni ordine e grado e, più in generale, l’intera categoria degli intellettuali, quali persone ritenute capaci di imprimere un indirizzo ideologico e di esercitare una profonda influenza nell’ambito dell’organizzazione politica.
La situazione testé descritta è motivo di non poca preoccupazione atteso che, in un sano sistema democratico, il ruolo degli intellettuali non è certo quello di accettare passivamente quanto prospettato dalle c. d. «stanze dei bottoni» ma di promuovere l’approfondimento della conoscenza e di sviluppare un’analisi razionale dei fatti e delle idee.
Per avviare una necessaria rivoluzione copernicana, ossia per invertire la rotta del sistema educativo, non resta che sperare in un cambio generazionale dell’attuale classe politica, chiusa nell’immobilismo più gretto e conformistico.
Gli attuali istrioni «signori della politica» hanno tutta la convenienza a mantenere lo status quo perché è facile prevedere che un cambio di rotta, nell’arco di qualche lustro, metterebbe fuori gioco loro stessi e il loro losco sistema politico.
La mancata introduzione dell’educazione civica, come materia obbligatoria, nelle scuole di primo grado e dell’etica privata e pubblica nelle scuole di secondo grado, ha tra l’altro comportato il diffondersi dell’individualismo, della maleducazione, della sfrontatezza e di comportamenti scorretti tra i giovani, fenomeni destinati ad incidere profondamente sul vivere civile e sul progresso umano.
La carenza di educazione civica ha fatto venir meno anche le regole del civile comportamento e della convivenza sociale, come ad es.:
- il «rispetto degli anziani», trascurato dai giovani;
- il «saluto», divenuto facoltativo nei giovani;
- la «gentilezza» nei confronti degli altri (che denota nobiltà interiore e finezza di sentimenti), quasi scomparsa nei giovani;
- l’uso del «lei» nei confronti di superiori o sconosciuti, ormai archiviato;
- l’uso di parole sconvenienti o lesive della dignità umana, divenute ormai d’abitudine e vezzo comune;
- l’uso di «forme di cortesia» (come ad es.: scusa, permesso, grazie, prego, etc.), poco praticate dai giovani, etc.
A riguardo di tali mancanze e carenze, che denotano un’involuzione dei rapporti umani, non dobbiamo dimenticare che i giovani maleducati di oggi sono destinati ad essere i cattivi cittadini di domani.
Al momento attuale, in attesa di indispensabili vere riforme legislative, sostitutive di quelle di pura facciata, non resta che confidare nella saggezza e nel concreto apporto del corpo docente e, più in generale, della categoria degli intellettuali, al fine quantomeno di contenere i danni di tanta incuria degli istrioni «signori della politica».
Educare i giovani a dire la verità
Nell’esposizione del vocabolario Treccani, educare significa «promuovere con l’insegnamento e con l’esempio lo sviluppo delle facoltà intellettuali, estetiche, e delle qualità morali di una persona, specialmente di giovane età».
In senso generale, il concetto di educare indica il far crescere e maturare qualcuno sotto il profilo morale e intellettuale, sviluppandone le facoltà e le attitudini.
La prima educazione dei bambini avviene in famiglia a cura dei genitori, con un’azione continua e coerente, si spera fondata su solidi principi e valori, oltre che sull’esempio (l’art. 30, primo comma, della Cost. stabilisce che «è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli …».
Sono proprio i genitori che, nello scoprire i primi difetti dei bambini, le prime manchevolezze e tendenze negative, hanno il dovere di intervenire per correggerle e migliorarne la condotta.
Gli esperti consigliano di impostare il rapporto genitori-figli sulla base di poche ed efficaci regole di convivenza in famiglia, che gli adolescenti parteciperanno a definire. Chi viene meno a tali regole dovrà scontare un’immediata punizione, previamente convenuta con gli adolescenti stessi. È oltremodo importante che i genitori diano per primi il buon esempio di rispetto delle regole, perché diversamente perdono credibilità verso i figli.
Dopo della famiglia, la scuola e le istituzioni sono chiamate a fornire le linee guida dei valori, della lealtà, della correttezza e della verità, ben sapendo che nei fanciulli tendono a prevalere l’ipocrisia e la menzogna.
È noto come, nella realtà, i fanciulli siano portati a mentire a tutti quelli con cui si rapportano, semplicemente per mettersi in mostra, per salvare le apparenze, per tornaconto personale, etc.
I pedagogisti insegnano che di fronte alle prime innocenti bugie del fanciullo è sbagliato accusarlo di essere un bugiardo matricolato, così come è controproducente assumere atteggiamenti troppo rigidi o moralistici e infliggere castighi esemplari. Infatti, considerano che le prime occasionali bugie dei fanciulli, fino ai primi due o tre anni di scuola, non siano intenzionali e, se troppo rimproverati, potrebbero venire indotti a farle diventare tali.
La bugia del fanciullo, secondo i pedagogisti, può sottendere in realtà un messaggio, come può essere una reazione alla paura, alla rabbia, al disagio provato in quel momento, un modo per discolparsi o per giustificarsi di qualcosa, ma può avere anche altre cause, come il timore di perdere l’affetto o la stima del genitore.
I pedagogisti considerano che il bambino, fino all’età di cinque o sei anni, non abbia ancora la nozione di vero o falso, di giusto o sbagliato, dell’agire per finta o per davvero, quindi ha bisogno di essere seguito ed educato man mano che avanza nell’età.
Per tale motivo, gli studi di antropologia e le ricerche di istituti specializzati smentiscono, o affievoliscono in qualche modo, l’antico detto secondo cui i bambini sarebbero la bocca della verità.
Gli stessi studi rilevano come le odierne scuole di pensiero sull’educazione dei bambini si attestino prevalentemente su due diversi orientamenti: alcune seguono l’indirizzo tradizionale e altre l’indirizzo della nuova antropologia culturale.
Le scuole di pensiero del primo indirizzo si ispirano, per così dire, ai proverbiali ammaestramenti che traspaiono in modo esemplare dal romanzo Le avventure di Pinocchio dello scrittore e giornalista italiano Carlo Lorenzini, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Carlo Collodi (1826-1890).
Da tale romanzo emerge un’umanità dalla duplice personalità, da una parte animata da buoni intenti, dall’altra menzognera, fatta di inguaribili bugiardi, lontana dalla verità, contrassegnata da furbizie degli uni a scapito di altri e destinata all’infelicità permanente.
Nel mondo dei bambini, analogamente, da una parte campeggiano i buoni propositi di seguire la retta via, dall’altra affiora subito l’idea di abbandonarla con una disinvoltura sconvolgente. E quando il loro tentativo di farla franca svanisce nel nulla, si affidano all’immancabile bugia. Questo modo comportamentale li avvezza a tal punto alla menzogna, da non essere più in grado di distinguere il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato.
Il racconto di Pinocchio traccia una sorprendente corrispondenza con la vita odierna, come confermano le cronache mediatiche quotidiane, che mettono continuamente a nudo le debolezze umane e la caratteristica psicologica dominante dell’animo umano, vale a dire la tendenza all’ipocrisia, l’inclinazione a mentire a noi stessi e agli altri.
Dette scuole di pensiero, seguendo i proverbiali ammaestramenti che traspaiono dal romanzo di Collodi, non esitano a deplorare le bugie e ad infliggere severe punizioni ai bambini che le raccontano.
Le scuole di pensiero del secondo indirizzo, invece, si identificano nell’antropologia culturale scaturente da moderne ricerche, tra cui fanno spicco quelle effettuate dal Dipartimento dello sviluppo umano e psicologia applicata dell’Università di Toronto.
Secondo tali importanti ricerche, l’età a cui corrisponde la massima inclinazione alle menzogne è quella che va dai dieci ai sedici anni, età in cui i ragazzi sono maggiormente portati a mentire ed in cui si registrerebbe il picco massimo generalizzato. Invece, dai sedici anni in poi, secondo gli studi anzidetti, la tendenza a mentire inizierebbe a subire un netto calo, in coincidenza con la maturazione e formazione culturale del ragazzo.
Quindi, secondo gli studiosi, è soprattutto in tale età che il ragazzo dovrebbe essere seguito e correttamente educato a dire la verità, anche perché, in genere, col progredire negli anni potrebbe aumentare la sua inclinazione alla falsità. Da notare però che la capacità di mentire del ragazzo, e di districarsi tra le menzogne, potrebbe svelare anche aspetti positivi, come vedremo più sotto.
I nuovi studi condotti al riguardo evidenziano elementi e dati molto importanti sulla tendenza a mentire nei ragazzi e sulle relative implicazioni psichiche. Gli studiosi, prendendo in esame la qualità delle bugie, evidenziano come i ragazzi in molti casi siano in grado di dire bugie convincenti in varie situazioni e contesti sociali. In breve, tali studi rilevano come i ragazzi, in molte situazioni, abbiano la capacità di mentire con successo.
Sembra di alto pregio la riflessione finale sui ragazzi bugiardi formulata dal citato Dipartimento dell’Università di Toronto: «Nei ragazzi le bugie sono un modo per imparare a ragionare e argomentare e hanno tutt’altra valenza rispetto alle bugie dei grandi. Imparare a fuorviare corrisponde a un’evoluzione del pensiero e non ha alcuna correlazione con la propensione degli adulti a truffare, che nasce dal mancato riconoscimento dell’onestà come valore morale».
Dagli studi in questione emerge peraltro un possibile aspetto positivo del ragazzo portato a mentire con molta facilità: «il ragazzo che si dimostra un capace mentitore svela un livello di maturità notevole e non necessariamente sarà un adulto bugiardo, mentre è probabile che possieda qualità foriere di successo». Si sostiene infatti che «tanto più i ragazzi sono bravi a muoversi tra le frottole, tanto più svelano abilità intellettive».
Ma ciò non significa, evidentemente, che l’inclinazione a mentire vada incoraggiata, che si possano giustificare le bugie, anzi i genitori e la scuola devono impegnarsi per insegnare ai fanciulli la verità, la sincerità, la schiettezza, la franchezza, l’onestà di comportamenti e di vita.
Si riporta un’educativa filastrocca della cultura popolare, da far recitare ai bambini, che si pone in linea con gli insegnamenti sia dell’una che dell’altra delle indicate scuole di pensiero (filastrocca citata dal noto arcivescovo Giancarlo Maria Bregantini di Campobasso-Boiano – autore di importanti opere letterarie – in una speciale rubrica da lui curata sul quotidiano l’ADIGE di Trento dd. 18 maggio 2014):
«verità è una gran cosa
dire rosa a una rosa
dire nero quando è nero
dire sempre e solo il vero».
Quanto poi al modo di educare, un metodo molto apprezzato è quello riconducibile al detto latino castigat ridendo mores – ridendo corregge i costumi, modo ispirato alla funzione moralizzatrice della satira latina, che ironizza sui mali della società e li mette in ridicolo. Secondo gli esegeti, il detto deriverebbe dall’adattamento del luogo oraziano: ridentem dicere verum, quid vetat ? – che cosa vieta di dire la verità ridendo ? (Orazio, Satire, I, 1, 24 – 25), che allude alla particolare tattica di dire il vero sorridendo oppure di ammonire con tono scherzoso e apparentemente bonario. Si dice di chi sa impartire insegnamenti morali in tono satirico o attraverso piacevoli forme letterarie e, più genericamente, di chi sa ammonire senza la severità del censore ma con l’arte di dire la verità e di ridicolizzare i difetti, quindi sorridendo e divertendo, senza essere arcigno.
Il metodo del castigat ridendo mores può essere seguito dal genitore, dal critico, dal docente, dal politologo, dal giornalista, dallo scrittore o da altre figure che, attraverso forme ironiche, scherzose o sarcastiche, sanno descrivere la verità e proporre insegnamenti morali in tono pacato.
In genere, gli insegnamenti sono tanto più apprezzati quanto più sanno esprimere saggezza, esperienza, ottimismo ed un pizzico di senso dell’umorismo che, secondo gli psicologi, deriva dalla maturazione, dal controllo dei propri impulsi, dalla capacità interiore di giocare tra desideri e realtà.
L’importanza di saper usare un pizzico di umorismo è sottolineata anche dall’illustre neurologo e psichiatra austriaco Sigmund Freud (1856-1939), il quale scrive che: «è una dote rara e preziosa, rafforza la nostra autostima senza aggredire gli altri e ci consente di sfidare le avverse fortune della realtà senza negarla».
≈
Senza nulla togliere a quanto detto più sopra, gli studiosi di antropologia restano dell’idea che educare i giovani a dire la verità è un presupposto necessario ma non sufficiente.
Secondo tali studiosi, infatti, è bene che genitori e insegnanti facciano capire ai giovani che, per riuscire nella vita, devono impegnarsi a fondo, dapprima nello studio poi nell’attività lavorativa.
Gli stessi soggiungono che gli inevitabili ostacoli e difficoltà della vita si superano con forza di volontà, impegno costante, applicazione continua, solerzia e diligenza nelle proprie cose. Nulla regala la vita senza applicazione e fatica.
In tema di forza di volontà, lo storico, scrittore, politico e filosofo italiano Niccolò Machiavelli (1469-1527) ci ha lasciato uno stupendo aforisma:
«dove c’è una grande volontà non possono esserci grandi difficoltà».
A questo riguardo, Papa Francesco, nel suo discorso del 30 novembre 2013, ha esortato gli universitari a non essere «spettatori ma protagonisti nelle sfide del mondo contemporaneo», a non essere «omologati» ed altresì a non lasciarsi condizionare dal «pensiero comune».
Il Papa ha anche proposto un evoluto stile di vita ai giovani, lanciando alcuni forti messaggi:
- in senso spirituale, non si può vivere senza guardare le stelle;
- in senso tangibile, non state al balcone; lottate per dignità e contro la povertà; dovete vivere mai vivacchiare; non lasciatevi rubare l’entusiasmo giovanile.
Riprendendo il concetto iniziale, Papa Francesco è poi esordito con uno sfavillante motto, degno delle più alte dottrine filosofiche:
«il pensiero è fecondo quando è espressione di una mente aperta, sempre illuminata dalla verità, dal bene e dalla bellezza».
L’esortazione di Papa Francesco agli universitari induce a qualche riflessione sull’idea del «vivere», intesa come modo di condurre la vita, di comportarsi e di agire, ed altresì come rilievo e spazio da accordare alla qualità dell’esistenza.
È nell’ordine delle cose che l’immagine del «vivere» comprenda sentimenti felici e dolorosi ed implichi l’assunzione di una dimensione etica individuale, una matura consapevolezza e accettazione o rifiuto di valori e principi.
Al riguardo, non dobbiamo dimenticare che il nostro modo di essere non deriva solo dall’educazione ricevuta, dalle condizioni di discendenza e familiari, ma è fortemente dipendente dalle scelte individuali, in virtù delle quali si possono delineare due diverse idee generali di «vivere la vita»:
- vive veri ideali di vita, chi ha un senso alto dei valori della vita, chi persegue un fine che lo motiva, chi antepone la trascendenza, chi ascolta la propria interiorità, chi sceglie correttezza e onestà come metodi di vita;
- vive alterati ideali di vita chi si ispira all’utilitarismo, chi è indifferente ai valori della vita, chi non ha un fine che lo motiva, chi non ha il coraggio di schierarsi nettamente dalla parte della correttezza e dell’onestà, chi basa tutto sulla convenienza o sul profitto, chi si adegua al soffiar dei venti.
È evidente che la prima idea di «vivere la vita», finalizzata ad elevarsi intellettualmente e spiritualmente, spazia al di sopra della realtà contingente, mentre la seconda idea di «vivere la vita», ispirandosi all’utilitarismo, spegne qualsiasi tensione a elevarsi sul piano della spiritualità ed inoltre, avendo come fondamento unicamente l’utile individuale, finisce per contribuire ad incrementare le ingiustizie umane e sociali, con l’assunzione di enormi responsabilità anche verso le generazioni future.
Queste due diverse concezioni di vita sono destinate a influenzare e caratterizzare l’intera esistenza dei singoli, con possibile creazione di vere e proprie barriere di ostilità a livello culturale, ideologico, politico, sociale.
In pratica, l’uno e l’altro modo di sentire e di vivere la vita sono dei veri e propri spartiacque che, nella vita pubblica, trascendono financo i tradizionali schieramenti di destra e di sinistra politica.
Sulla base delle riflessioni che precedono, è bene che i giovani vengano stimolati a conoscere la verità e opportunamente indirizzati a scelte di vita individuali finalizzate ad elevarsi intellettualmente e spiritualmente.
Classe dirigente e verità
In via preliminare, occorre chiarire cosa si intende nel presente contesto per «classe dirigente», onde evitare dubbi sull’interpretazione dell’espressione.
È qui intesa come tale quella ristretta cerchia di persone, comunemente percepita come l’élite della società, avente un ruolo preminente rispetto al resto della popolazione, che si distingue per un buon livello di istruzione, per cultura, per posizione sociale, per prestigio, e che costituisce la parte più autorevole della cittadinanza.
In genere, tali persone occupano posizioni dirigenziali, esercitano professioni intellettuali o si dedicano ad attività di coordinamento, oppure sono studiosi, accademici, giornalisti, insegnanti, letterati, scrittori, direttori di aziende private o di pubbliche istituzioni, etc., persone in grado di esercitare una profonda influenza nell’organizzazione politica, economica, sociale, culturale e negli orientamenti ideologici.
Detti uomini di cultura che, per praticità, si possono definire gli intellettuali della società, sono sempre stati oggetto di vivaci dibattiti nel corso della storia, anche perché tra loro sono emerse frequentemente posizioni contrapposte in campo sociale e politico.
Di seguito, si riportano in estrema sintesi alcuni importanti orientamenti e tendenze degli uomini di cultura nell’età moderna e contemporanea:
- nel periodo del rinascimento, mentre gran parte degli uomini di cultura è al servizio del potere, altri invece assumono una posizione critica nei confronti del medesimo;
- nel periodo dell’illuminismo, uomini di cultura acquisiscono i caratteri di «portavoce del dissenso» verso qualunque autorità costituita, ritenendosi liberi di esporre il proprio pensiero anche critico nei confronti delle istituzioni;
- nel periodo del positivismo, uomini di cultura assumono una rigorosa difesa dell’indipendenza della scienza da ogni intromissione dei poteri costituiti che la renda «serva o cortigiana» (Bacone);
- nei primi decenni del secolo scorso, molti uomini di cultura sono sostanzialmente al servizio del potere, archetipo accentuatosi poi nel regime fascista in cui divengono partecipi, sostenitori e complici;
- nel periodo fascista, inizia a formarsi il pensiero della lotta di classe in cui gli uomini di cultura hanno «una funzione essenziale nella costruzione dell’egemonia culturale» (Antonio Gramsci);
- nel secondo dopoguerra, si rafforzano sostanzialmente due ben distinte correnti di pensiero che, pur collocando ambedue gli uomini di cultura al servizio del potere, presentano una netta differenziazione tra quella funzionale all’orientamento di centro destra e quella funzionale all’orientamento di centro sinistra.
Quest’ultima circostanza del secondo dopoguerra (accentuatasi fino alla caduta dei due maggiori partiti, DC e PCI ma protrattasi anche oltre), benché ufficialmente sconfessata dagli esponenti politici del tempo (cfr. le prese di posizione, rispettivamente di Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, e di Alcide Degasperi della democrazia cristiana), è ampiamente confermata dai fatti.
A riguardo dello schieramento e/o delle tendenze ideologico-politiche degli uomini di cultura, in un articolo sul Corriere della sera, il famoso giornalista e saggista Indro Montanelli (1909-2001) osservava: «fin da epoca rinascimentale, l’intellettuale italiano era sempre stato al servizio del potere».
Sui più recenti rapporti tra «politica e cultura», l’editore e saggista Giuseppe Laterza esprime un’opposta opinione in quanto scrive: «da anni ormai il dialogo tra politica e cultura si è interrotto, anche a sinistra, con risultati dirompenti».
Ai giorni nostri, l’orientamento della classe dirigente denota una certa tendenza verso la funzione di collaborazione ai processi di riforma, seppure in ordine sparso, senza mai abbandonare l’idea, ormai radicata, dell’allineamento al centro destra o al centro sinistra e, quindi, ben lungi dall’autonomia da ogni condizionamento dei partiti politici.
Allo stato dei fatti, è poi innegabile l’incessante e pressante tentativo delle pubbliche istituzioni di assoggettare gli intellettuali e le persone di cultura al potere politico (amplius, cfr. supra la voce Sistema educativo e verità).
Fermo restando gli opposti orientamenti verso il centro destra o il centro sinistra, di fatto, gli intellettuali sono certamente inglobati nel sistema, indiscutibilmente soggetti a pesanti costrizioni nello svolgimento della loro attività, e nel momento in cui non forniscono prova tangibile di cieca fedeltà al regime politico possono anche vedersi interrotto il rapporto di collaborazione e venire sollevati dall’incarico ricoperto.
La connivenza degli intellettuali con il potere, sia esso di centro destra o di centro sinistra, è certamente prova di cieca e incondizionata fedeltà e, al tempo stesso, è anche prova provata che gli uni e gli altri operano in completa simbiosi, come partecipi, sostenitori e complici.
Ecco spiegato il motivo per cui il potere politico e gli intellettuali rendono il sistema impenetrabile e non lasciano trapelare le mancanze e le bricconate politiche, quando invece in un sano sistema democratico la politica dovrebbe essere trasparente ed oggetto di qualsiasi tipo di critica.
È noto lippis et tonsoribus che i dirigenti delle pubbliche istituzioni sono in una posizione ideale per conoscere le malefatte della politica (come del resto anche le proprie e quelle dei poteri sottostanti), ma se ne guardano bene dal svelarle e dal far conoscere la verità, salvo che le stesse non siano riconducibili ad avversari politici.
Non è vero, come pretenderebbero far intendere, che in campo politico e sociale esistono principi e ragionamenti troppo difficili da comprendere, per cui politici e dirigenti si vedono costretti a usare un linguaggio tecnico inaccessibile ai più, è vero invece che la non trasparenza di questi signori serve ad occultare le malefatte, come è vero altresì che ricorrono spesso ad un frasario ideologico o demagogico con meri fini propagandistici.
Da questi brevi cenni emerge come i politici e i dirigenti siano poco propensi a far conoscere le cose come stanno, quando invece dovrebbero impegnarsi a fondo per rendere cristallino il loro operato, sia in omaggio alla verità come anche al fine di creare l’immagine di un’amministrazione pubblica corretta, trasparente e giusta.
Una sana e cristallina amministrazione pubblica presuppone doti di schiettezza e franchezza che, ahinoi, risultano estranee all’attuale mondo della politica e alla sottostante classe dirigente, mondo nel quale
verità e parresia non vanno in compagnia
Per altre riflessioni e situazioni di criticità nei rapporti tra politica e classe dirigente, cfr. le riflessioni ai Capitoli VII e VIII.
Inclinazione alla verità
Sulla scia del pensiero maturato dalla classicità greco-latina, si ritiene ancora oggi che l’uomo sia governato da un duplice ordine di leggi:
- leggi non scritte, costituite da regole invariabili della natura, che non tollerano leggi umane ad esse contrarie: adversante et repugnante natura – in opposizione e in contrasto con la natura (Cicerone, De officiis, I, 31, 110);
- leggi scritte, emanate dagli organi legislativi e da altri organi istituzionali competenti.
Nel nostro intimo, affermano i filosofi della classicità greco-latina, sentiamo che le leggi della natura, dette anche leggi naturali, sono giuste e fanno parte integrante della natura stessa e della vita umana.
Sotto il profilo della morale comune e dell’etica sociale, le leggi della natura o leggi naturali sono destinate ad assumere non poca rilevanza per le persone, in quanto il loro mancato rispetto può essere causa di negativi rapporti con se stessi, prima ancora che con la società civile.
Secondo gli studiosi di antropologia, le leggi naturali sono indiscutibilmente conformi alla natura umana e, in quanto tali, si delineano come indicazioni di vita, destinate a caratterizzare le relazioni umane e sociali.
Al contrario, le leggi scritte dagli uomini sono imperfette e, a causa delle loro connaturate restrizioni, possono financo arrivare a soffocare gli ideali, i valori e i principi individuali, che per i singoli costituiscono verità indiscusse.
Tali peculiarità, secondo gli studiosi dei fatti e dei comportamenti umani, inducono a ritenere che la conditio sine qua non per un concreto miglioramento delle relazioni sociali e per realizzare retti rapporti con tutti, sia il rigoroso rispetto delle leggi naturali, prima ancora delle leggi scritte dagli uomini.
Più specificamente, gli studiosi di antropologia ritengono che per un concreto miglioramento delle relazioni umane e sociali non si possa prescindere dalle leggi naturali, fondamentali della natura umana, in primis da quelle correlate all’honestatem, integrità morale, onestà di costumi, di modi e di giudizio, ed altresì da quelle correlate alla parresia, franchezza, schiettezza, verità, lealtà d’animo e di pensiero.
Invero, è estremamente difficile, se non impossibile, in talune materie e in talune situazioni conciliare i due punti di vista, quello delle leggi naturali e delle leggi scritte dagli uomini, anche per la diversità delle idee e delle convinzioni riscontrabili all’interno della realtà umana e sociale, quindi nelle varie circostanze si richiede un’effettiva disponibilità a cooperare ed un continuo sforzo comune che tenda all’avvicinamento dell’uno con l’altro.
In ogni caso, non dobbiamo mai dimenticare che i rapporti umani e sociali che prescindono dalle leggi naturali, dal diritto naturale, dall’onestà concettuale e dai principi morali, non possono che porsi in contrasto con la verità, oltre che con la propria coscienza, e quindi divenire fonte di guai e forieri di difficoltà di ogni ordine.
A riguardo delle leggi naturali che governano il comportamento umano, è di alto pregio la massima morale del celebre filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804):
«comportati in ogni circostanza come se la norma che dirige le tue azioni potesse essere elevata a legge universale».
Quanto all’importanza della verità nei rapporti umani e sociali, si ricorda che la stessa è stata definita come la «preziosa qualità di una persona» che, per animo, per carattere, per indole o per natura, nel parlare e nel confessare qualcosa non sa fingere.
Ne deriva che la persona franca e schietta si attiene spontaneamente alla verità, vuoi per dovere morale vuoi per scrupolo di coscienza.
Non può certo avere integrità morale e scrupolo di coscienza la persona che dice il falso, che inventa con la mente, che finge, che non esprime il vero, che altera la verità con piena consapevolezza.
Si deve peraltro riconoscere che nel quotidiano non è facile essere sempre sinceri fino in fondo, in parte per i condizionamenti imposti dalle regole del civile comportamento ed in parte per quelli imposti dalla convivenza sociale, così come non è facile essere sinceri allo stesso modo con due persone diverse, ma è però importante che tutti si sforzino di esserlo e che tutti aspirino alla sincerità.
In realtà, si nota come gli individui, per una ragione e per altra, siano spesso poco inclini alla verità, tendano all’ipocrisia, ed altresì come non tutti sentano il dovere civico e morale dell’onestà e della sincerità.
Secondo gli psicologi, le persone tendono a soffocare la naturale propensione alla verità e, in genere, tendono anche a non dare fiducia agli altri, spinti dalla diffidenza che deriva da delusioni e da tradimenti sofferti.
Sul piano fattuale, le delusioni subite da una persona, sentite come stato di prostrazione e disagio morale provato a fronte di un risultato contrario a speranze, a previsioni o aspettative, possono avere un duplice effetto:
- in chiave positiva, possono persuadere la persona ad essere più realistica, inducendola a guardare in faccia la realtà, anche quando è brutale;
- in chiave negativa, possono generare scoraggiamento e persino disperazione nella persona, specie quando sono insospettate o particolarmente forti.
In ogni caso, a fronte di una forte diffidenza verso qualcuno, derivante da delusioni o tradimenti, gli psicologi e gli esperti consigliano di reagire e trovare la forza per riprendersi, in quanto nella diffidenza non possiamo essere felici, sia perché rinneghiamo le pulsioni naturali alla verità e alla razionalità, come anche perché la diffidenza, a lungo andare, ci imprigiona in una gabbia senza via d’uscita, rendendo difficili i rapporti relazionali.
Per contro, si nota un’istintiva tendenza a ritenere e accettare come veritiero quanto ci viene riferito da congiunti o da amici e tanto più i legami sono forti, tanto più è elevata l’inclinazione alla reciproca sincerità. Questa istintiva affidabilità si spiega sia con motivi affettivi sia anche col fatto che la fiducia nel congiunto e nell’amico facilita la comunicazione e rinsalda i rapporti.
I rapporti con congiunti e con amici costituiscono, per così dire, un’eccezione all’inconscia tendenza che, come già detto sopra, tende a soffocare la naturale propensione alla verità e a non dare fiducia agli altri.
L’esperienza insegna che onestà e sincerità, e per intrinseca connessione l’inclinazione verso la ricerca della verità, sono virtù di pochi che non rendono certo la vita facile a chi le possiede ma che tuttavia sono virtù da alimentare, sono beni vitali che scaturiscono dalla morale e dalla coscienza. Perciò, si dice che la ricerca della verità è l’essenza dell’esistenza dell’uomo.
In tema di verità, piace ospitare il pensiero, di alto spessore culturale, di Valentina Caldana che, dimostrando una prorompente personalità e una intensa vita interiore, lo ha compendiato nel seguente incisivo assunto
la verità: c’è chi passa una vita intera a cercarla …, forse anche per dare un senso a ciò che lo circonda.
Nello spazio siderale delle verità ognuno, massimamente, trova conforto solo in quella riposta nella propria coscienza, da cui riceve pace.
In una visione di società ideale, chi ascolta e segue la propria interiorità è persona sincera, incline alla ricerca della verità, è d’animo aperto e leale, è schietta, aliena dal fingere e quindi dal nascondere il proprio pensiero.
Nel fare, nel dire e nel porsi, simile persona non usa ambiguità, artificio, inganno ma ha naturalezza di carattere ed un contegno spontaneo e genuino, insomma è persona immune da tale genere di difetti.
Sappiamo bene che questa figura di persona non ha riscontro nella realtà effettiva, perché nessuno è perfetto nella conduzione di vita, tuttavia tutti dovrebbero sforzarsi nel senso prospettato perché in questo modo si potrebbe: stare meglio con se stessi, stabilire un rapporto appagante con la propria interiorità, creare migliori condizioni di vita, star bene insieme agli altri e l’esistenza umana, pur nella sua precarietà, potrebbe essere più vivibile per tutti.
Per cambiare in meglio il nostro modo di vivere, spesso reso difficile da ambiguità e falsità, è cosa lodevole che ognuno faccia sentire la propria voce a fronte di ingiustizie, sopraffazioni, prepotenze, soprusi, iniquità, abusi perpetrati da uomini di governo e dai potenti in genere, specie quando siano ai danni di persone deboli o indifese.
È angosciante dover constare come l’inclinazione alla verità subisca un clamoroso arresto, un’obbrobriosa limitazione, allorché i deboli e i buoni, ispirandosi a motivi di giustizia o di verità, temendo ritorsioni non osino apprestarsi a censurare i potenti, esprimere critiche o giudizi sul loro operato.
A causa di ciò, il più delle volte prevale la ragione del più forte, la ragione di chi detiene il potere, anche se è nell’errore e sa di esserlo.
A fare uso e abuso della propria condizione di forza è spesso la Pubblica Amministrazione e, parallelamente, le Società partecipate e gli Enti privati, gestori di servizi pubblici (amplius, cfr. la voce: «Verità e violenza» in questo stesso Capitolo).
Sulla giusta aspirazione delle persone, specie quelle di basse condizioni sociali, di veder trionfare la verità e la giustizia nei confronti dei poteri costituiti e dei potenti, si richiama l’antico detto, di immutabile attualità: «è più creduta la menzogna del ricco che la verità del povero», da cui si intuisce che i deboli e i buoni ne escono spesso soccombenti.
I poteri costituiti, i potenti e tutti coloro che, detenendo il potere, fanno prevalere la ragione del più forte, meritano la disistima generale in quanto la disonestà, la menzogna, la finzione e l’alterazione della verità sono la negazione dell’etica e della morale comune, oltre che riprovevoli sotto ogni profilo.
Detti poteri forti, qualsiasi essi siano, non possono tra l’altro ignorare che il male da essi originato, creato o cagionato, così come le conseguenze di loro comportamenti ingiusti o dannosi, sono destinati a pesare come un macigno sulle coscienze dei singoli responsabili.
Inclinazione alla menzogna e alla bugia
I dizionari definiscono come «menzogna» l’alterazione o la falsificazione verbale della verità, perseguita con piena consapevolezza e determinazione, ma anche come dichiarazione contraria a ciò che viene fatto, sentito o visto.
I dizionari definiscono invece come «bugia» un’affermazione falsa fatta intenzionalmente, ben sapendo di non dire la verità, per trarre qualcuno in errore, per nascondere una propria colpa o per esaltare se stessi.
Il versetto biblico omnis homo mendax – ogni uomo è bugiardo (Salmi, 115, 1) lascia intuire che nulla è più comune nell’uomo che la menzogna e la bugia.
Nella classicità latina si trovano ampie conferme sull’uomo mentitore e bugiardo:
- quid Romae faciam ? Mentiri nescio; librum, si malus est, nequeo laudare et poscere – io a Roma che ci faccio ? Non so mentire; un libro, se è cattivo, non so né lodarlo né chiederlo in prestito (Giovenale, Satire, III, 41), da cui emerge che i mentitori non mancavano di certo nel mondo romano;
- multi mentiuntur ut decipiant, multi quia decepti sunt – molti mentono per ingannare, molti altri perché sono ingannati, lascia intuire che nulla è più comune nell’uomo che la menzogna;
- nemo potest personam diu ferre – nessuno può portare a lungo una maschera (Seneca, De clementia, 1, 1, 6), intendendo che, a lungo andare, la maschera imposta dalle circostanze della falsità e dell’ipocrisia impedisce di essere se stessi e quindi non potrà essere portata a lungo;
- mendacem oportet esse memorem – il mentitore (il bugiardo) deve avere una buona memoria (Quintiliano, De institutione oratoria, IV, 2, 91), nel senso che il mentitore deve ricordare bene le sue finzioni retoriche al fine di non cadere prima o poi in contraddizione con se stesso;
- mendaci ne verum quidem dicenti creditur – il mentitore non è creduto neppure quando dice la verità (Cicerone, De divinatione, II, 1, 146), da cui l’insegnamento di improntare i propri rapporti e comportamenti sulla lealtà e correttezza;
- improbi hominis est mendacio fallere – è da uomo malvagio ingannare colla menzogna (Cicerone, Pro Murena, 62), insegnamento morale di immutabile attualità;
- assuescere dicere verum et audire – dobbiamo avvezzarci a dire e udire soltanto la verità (Seneca, Epistole, 68), indica che occorre assumere un atteggiamento morale fondato sulla determinazione di non mentire, sulla verità, sull’autenticità dei sentimenti e sulla sincerità.
Il detto medievale decipit incautas fistula dulcis aves – la dolce zampogna inganna gli incauti uccelli, che riprende il distico catoniano: fistula dulce canit, volucrem cum decipit auceps – la zampogna suona dolcemente mentre l’uccellatore prende in trappola l’uccello (Catone, Disticha, I, 27, 2), mette in guardia da imbonitori e ciarlatani e da coloro che catturano le persone con il loro bel parlare e le traggono in inganno. Da qui l’insegnamento che non bisogna lasciarsi ingannare dal solo aspetto esteriore delle cose, fidarsi delle apparenze, essere creduloni.
Nel linguaggio corrente, i termini «menzognero» e «bugiardo» sono assunti con significato sinonimico, benchè i dizionari facciano in genere una sottile distinzione:
- menzognero è chi inventa con la mente, dice consapevolmente cosa contraria alla verità, non esprime il vero, afferma ciò che non è, finge, altera la verità con piena consapevolezza;
- bugiardo è chi ricorre a bugie, chi dice bugie per vizio o in occasioni particolari, al fine di raggirare, trarre in inganno o nascondere una propria colpa, etc.
Occorre peraltro un minimo di cautela nelle interazioni sociali perché non sempre si tratta di vera e propria menzogna o bugia, specie se trattasi di cose già sentite da altri, quanto più propriamente di: bufala, ovvero di notizia clamorosamente infondata; diceria, ovvero di chiacchiera per diffondere illazioni o maldicenze; montatura, ovvero di gonfiatura o mistificazione intenzionale di una notizia; pettegolezzo, ovvero di chiacchiera indiscreta per mettere in cattiva luce qualcuno.
Ci sono anche tante specie di menzogne e bugie, fantasiose, plausibili, sfacciate, spudorate, etc., tutte più o meno rilevanti, negative o dannose, per chi le deve accettare o sopportare. Nei comuni modi di dire, si sogliono poi specificare con precisione di termini le varie specie di menzogna e/o bugia:
- credibile, che può essere ritenuta vera o attendibile;
- inverosimile, che si discosta troppo da ciò che è normale, logico o plausibile;
- clamorosa, che suscita ampia riprovazione nell’opinione pubblica;
- innocente, quella detta per buona educazione;
- di opportunità, quella detta per ragioni di convenienza sociale;
- buona, a favore di chi la riceve;
- cattiva, a danno di chi la riceve;
- pietosa, che altera la verità per non destare dolore;
- innocua, che non arreca danno e non ha conseguenze dannose;
- crudele, che produce sofferenza morale;
- occasionale, detta per tutelare impreviste situazioni;
- sfrontata, dimostrativa di esperienze o eventi poco probabili e facilmente confutabili;
- altruistica, detta per amore verso gli altri;
- con le «gambe corte», che fa poca strada perché viene subito scoperta.
La menzogna e la bugia sono prodotti dell’immaginazione e possono riguardare i più disparati eventi, argomenti o avventure galanti, ma sono tutte situazioni frutto della fantasia o dell’invenzione.
Ci sono anche vari modi di porsi di fronte alla menzogna e alla bugia, come ad es. c’è chi: è incapace di mentire, incline a dissimulare, incline a falsificare, pronto a rifiutare la menzogna per principio considerandola un’astuzia raffinata, pronto a giustificare la menzogna qualora si riveli necessaria, etc.
Le menzogne e le bugie si dicono tra amici, tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra alunni e professori, tra colleghi di lavoro, tra professionista e cliente e viceversa, tra venditore e acquirente, etc., solitamente finalizzate ad ingannare, tradire, difendersi, vantarsi, a non essere scoperti, etc.
L’uomo politico e diplomatico francese Talleyrand-Périgord (1754-1838), nelle sue Memorie ha causticamente scritto che «la parola serve a non rivelare e a nascondere il pensiero», lasciando intuire che l’ipocrisia è pressoché inevitabile nei rapporti umani e sociali.
In linea di principio, però, ognuno dovrebbe impegnarsi a non mentire, ad essere sincero e veritiero, avendo sempre presente il monito della tradizione proverbiale: «verità e bugia non vanno in compagnia».
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In psicologia ma anche in senso generale, si prendono in considerazione due forme particolari di menzogna:
- la dissimulazione, in cui ci si limita a nascondere o a celare un sentimento, un’intenzione, una determinata informazione, ma senza dire nulla di falso;
- la falsificazione, in cui si altera o si modifica intenzionalmente un’informazione, si spaccia per vera una notizia falsa o si snatura una notizia vera.
Con la dissimulazione si nasconde deliberatamente qualcosa, si occultano dati, si cela volutamente un’informazione, mentre con la falsificazione si altera o si muta intenzionalmente qualcosa (un documento, il senso di una frase, etc.) al fine di ingannare.
In genere, la menzogna nella forma della dissimulazione è per lo più una bugia buona, pietosa, innocua, altruistica, mentre nella forma della falsificazione è in genere una bugia cattiva, crudele, che le persone creano per calcolo, per interesse o per viltà, non solo nei rapporti con gli altri ma anche con se stessi.
Ci sono casi in cui la menzogna, nella forma della dissimulazione, può risultare utile quanto la verità per evitare conflitti inutili, e casi in cui la menzogna, nella forma della falsificazione, può risultare rischiosa perché si perde la faccia o l’onore e porta il mentitore a vivere sentimenti complessi, lacerato tra necessità di mentire e sensi di colpa verso la persona a cui altera la verità.
Gli antropologi esprimono ferma condanna della menzogna, specie nella forma della falsificazione, trattandosi di biasimevole atto sempre finalizzato a trarre in inganno.
Per quanto riguarda i bugiardi, invece, si sogliono raggruppare in tre grandi tipologie: bugiardi occasionali, che mentono per tutelare impreviste situazioni; bugiardi inveterati, per i quali mentire è divenuto il loro stile di vita; bugiardi professionisti, che si immunizzano e dimostrano una spiccata inclinazione a mistificare sempre e comunque la realtà o la verità.
In fatto di bugiardi, si richiama il forte monito di Abraham Lincoln (16° presidente degli Stati Uniti, 1809-1865):
«potrete ingannare tutti per un po’, potrete ingannare qualcuno per sempre, ma non potrete ingannare tutti per sempre».
In chiave umoristica, in ordine ai vari tipi di bugiardi, il commediografo belga di lingua francese Francis de Croisset, pseudonimo di Frantz Wiener (1877 – 1937) dichiara che: «vi sono tante varietà di bugiardi quante specie di farfalle. C’è l’uomo che mente perché è ben educato: è un uomo di mondo. C’è l’uomo che mente per dovere: è un santo. C’è l’uomo che mente per interesse, per egoismo, per vigliaccheria: è un tipaccio. C’è l’uomo che mente per gusto: quello è un bugiardo. Finalmente c’è l’uomo che mente alle donne: quello non mente».
Riguardo ai mentitori, invece, la moderna psicologia distingue due tipologie che, a grandi linee, sono le seguenti:
- quella del mentitore compulsivo, che mente generalmente perché, facendolo, ha la sensazione di stare meglio con se stesso rispetto a quando dice la verità;
- quella del mentitore patologico, che mente abitualmente anche senza motivo, per ottenere qualcosa o per raggiungere un fine specifico.
Ovviamente, non esiste una precisa linea di demarcazione tra le due tipologie di mentitori, né questi sono riconducibili all’una o all’altra delle stesse, per cui le tipologie in questione sono da considerarsi approssimative e meramente indicative.
È noto come donne e uomini siano in genere portati a mentire, in modo più o meno frequente, come è noto che taluni lo siano più di altri, fino a divenire mentitori incalliti e incorreggibili, tali da resistere a ogni richiamo della ragione e della coscienza.
Il mentitore, sia esso occasionale o patologico, non è facilmente riconoscibile prima facie ma, secondo gli psicologi, si possono però trarre utili indicazioni dai suoi atteggiamenti e dai suoi modi di fare, com’è il caso ad es. di chi:
- si giustifica anche se non è richiesto,
- gesticola troppo senza motivo,
- espone i fatti in modo telegrafico,
- non risponde in modo chiaro e diretto,
- quando parla distoglie lo sguardo,
- risponde con battute di spirito, specie se fuori luogo,
- usa mezze frasi, anziché esprimere un’idea chiara,
- racconta mezze verità.
Sono tutti espedienti finalizzati a celare il proprio pensiero che, oltre a denotare poca trasparenza, secondo la psicologia si possono anche considerare come chiari indizi o sintomi rivelatori di chi tende a mentire.
Va da sé che, in linea di principio, ognuno deve impegnarsi a non mentire, ad essere sincero e veritiero, a preferire la più inutile delle verità alla più utile e costruttiva delle bugie.
A riguardo dell’uomo mentitore, il significativo detto della tradizione proverbiale
«un uomo che mente è un uomo in gabbia»
fa capire come l’uomo che mente finisca per divenire prigioniero delle proprie finzioni retoriche, incombendo il rischio di cadere prima o poi in contraddizione con se stesso.
In definitiva, le suesposte riflessioni dimostrano che menzogna e bugia sono antitetiche a parresia e a qualsivoglia veduta prospettica di verità.
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La realtà dei nostri tempi induce a tenere conto che ci sono anche uomini menzogneri di professione, che non si pongono il problema di divenire prigionieri delle loro finzioni, uomini esperti di simulazione, veri artisti della menzogna e della bugia.
Tali uomini sono gli istrioni «signori della politica», abili imbonitori che tentano in tutti i modi di distrarre la gente dall’occuparsi dei problemi veri e che, mossi da arcani motivi e/o interessi politici, non esitano a:
- far passare per bene ciò che non è tale;
- nascondere la verità che porterebbe discredito alla loro immagine;
- escogitare progetti politici inattuabili per acquisire popolarità;
- mascherare la sete di potere attraverso il buonismo;
- sfruttare o strumentalizzare persone per conseguire potere, etc.
Sono solo alcuni prototipi cui ricorrono i politici, nel consueto vaniloquio filosofeggiante e sterile, per prospettare ombre di verità o per nascondere il loro pensiero sotto una stupefacente varietà di formule.
Tali comportamenti dimostrano, se ce ne fosse bisogno, che
politica e parresia non vanno in compagnia
L’abilità dialettica dei signori della politica li fa apparire come autentici attori di teatro, abili coniatori di massime e paradossi, di battute imperniate sull’umorismo e sull’ironia tagliente, finendo per denotarsi menzogneri di professione.
Detti signori hanno una voce ammaliatrice e, all’occasione, sanno usare espedienti retorici e velenose parole, senza riguardi per nessuno dei loro degni compari di teatro, espedienti rivelatori di parresia falsa, ingannevole e illusoria.
È angoscioso dover constatare come, agli occhi degli sprovveduti, questi signori passino per abili oratori e bravi politici quando invece, alla prova dei fatti, hanno dimostrato totale incapacità di risolvere i gravi problemi che affliggono il Paese (amplius, cfr. le voci: Democrazia ibrida e difettosa, Partiti politici e ius italicum, Capitolo VIII).
Si ha fondato motivo di ritenere che per reggere le sorti di un Paese non serva l’abilità dialettica di politici ciarlatani e commedianti, che sanno solo allestire il teatrino della politica, ammaliando e ingannando le folle con il loro colorito quanto illusorio linguaggio infarcito di menzogne e bugie, ma servano invece persone serie e assennate che sappiano affrontare con capacità e senso di responsabilità i problemi della comunità.
Inclinazione ad occultare la verità
I filosofi della classicità greco-latina si sono posti il problema della cognizione del bene e del male, di capire se esista o meno il vero, cosa si debba intendere propriamente per il vero e, a sua volta, come distinguerlo dal falso.
Assodato che il vero esiste, e con esso la verità, si sono posti l’ulteriore problema di capire se esista un solo vero, e quindi una sola verità, o se esista più di un vero e più di una verità.
Su quest’ultimo difficile tema i classici greci e latini hanno dato luogo ad infinità di dibattiti, senza mai giungere ad una tesi condivisa, ma tutti hanno però aderito all’idea di incoraggiare ideali di vita fondati sulla verità e di avversare comportamenti che tendano ad occultare la verità.
In tema, nella classicità latina fa spicco l’alto pensiero senecano che, parallelamente, prospetta uno stretto rapporto tra verità e felicità: beatus enim dici nemo potest extra veritatem proiectus – nessuno può dirsi felice se sta fuori dalla verità (Seneca, De vita beata, 5), da cui emerge che discostandosi dalla verità non si può trovare la felicità.
In linea ideale, non c’è dubbio che i rapporti umani e sociali dovrebbero svolgersi nella sincerità, così da far corrispondere la parola e i comportamenti all’effettivo modo di sentire o di pensare.
In altri termini, i vari rapporti dovrebbero confarsi a parresia, cioè a schiettezza e sincerità, quale preziosa qualità della persona che non sa fingere e che si attiene spontaneamente alla verità, vuoi per dovere morale vuoi per scrupolo di coscienza.
Nel recente passato, su questa peculiare qualità della persona si sono formate due correnti filosofiche di pensiero:
- la prima, riconducibile al grande filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), afferma l’assoluto valore della verità e il dovere assoluto della schiettezza, anche quando risulta a proprio danno;
- la seconda, riconducibile alla dottrina filosofica dell’utilitarismo affermatasi in Inghilterra nel XVII e XVIII sec., antepone l’utile individuale e sociale al valore della verità, reputandolo come motivo fondamentale dell’agire umano.
La Chiesa cattolica, sul piano fattuale, ha sempre tenuto una via di mezzo tra gli uni e gli altri, sulla scia della sottile riflessione di Sant’Agostino: «altro è mentire, altro occultare il proprio pensiero», finendo così per considerare ammissibili espressioni volte a nascondere la verità, quando questa non si possa o non sia opportuno manifestare.
Le persone, nei quotidiani comportamenti, di fatto, tendono istintivamente a seguire la prima corrente filosofica, così come altrettanto istintivamente la seconda, a prescindere dai propri convincimenti e valori.
In linea di principio, però, non corre dubbio che ognuno dovrebbe impegnarsi a seguire la prima corrente filosofica e quindi preferire sempre la verità e la schiettezza all’utile individuale e sociale.
Per dovere di chiarezza, va detto che l’occultamento del proprio pensiero e la falsità sono di per sé motivo di criticità e problematicità, in quanto si sa che a volte possono «far male a se stessi» e altre volte possono «rompere l’anima alla gente».
Simili situazioni di criticità e di problematicità, nel confermare la fondatezza della citata linea filosofica kantiana, rafforzano l’attendibilità del vecchio detto popolare:
«la verità è una sedia scomoda sulla quale pochi sono disposti a sedersi».
Si citano, tuttavia, alcune circostanze in cui, secondo un opinabile orientamento, taluni considerano giustificato l’occultamento del proprio pensiero e quindi, più o meno ipocritamente, ritengono possa venire meno l’obbligo morale di spiattellare la verità in toto o in parte:
- dichiarare di non sapere nulla quando si viene interrogati in modo arbitrario in qualche circostanza;
- negare di conoscere una cosa per non tradire il segreto d’ufficio, professionale o sacramentale;
- usare un’espressione velata o evasiva per evitare un’insidiosa minaccia di qualcuno prevenuto e privo di scrupoli;
- rifiutare una chiamata telefonica o far dire di non essere in casa a qualche persona fastidiosa e seccante per la sua nota petulanza.
Un delicato aspetto collaterale all’occultamento del proprio pensiero è il ricorso ad espressioni vaghe o ambigue, onde evitare di affrontare direttamente una questione, svelare un segreto o rispondere a un’insidiosa domanda.
Tale opinabile tattica presuppone comunque ponderazione, assennatezza e prudenza, perché spesso il linguaggio evasivo o elusivo richiede vere e proprie acrobazie dialettiche che, per come si prospettano, non ci esentano dall’accusa di ipocrisia, oltre al fatto che le persone meno colte sono incapaci di percepire e cogliere certe sfumature.
Inoltre, non si può fare a meno di osservare che l’uso inadeguato o inopportuno di espressioni evasive, in talune situazioni, può costituire un abuso e quindi si potrebbe essere tacciati di ipocrisia.
In linea di principio, non corre dubbio che ognuno dovrebbe sentire il dovere civico e morale della parresia, di dire sempre la verità, limitando l’occultamento della stessa a casi e situazioni del tutto personali e particolari, giustificate da motivi di riservatezza o da oggettive e inequivocabili ragioni superiori.
Se tale indirizzo può valere nei rapporti personali non trova comunque applicazione in campo pubblico, ove la parresia deve costituire la regola, salvo le eccezioni espressamente previste dalla legge.
In tale ambito, infatti, non si deve assolutamente prescindere dalla regola della parresia veritiera, che è sempre positiva e costruttiva, mentre si deve invece rifuggire dalla parresia falsa, premonitrice di inganni e di illusioni.
Quindi, in campo pubblico è deplorevole il ricorso da parte dei politici ad espressioni evasive o elusive, utilizzate per nascondere verità scomode, in quanto tese ad annullare la linea di confine fra realtà e finzione, fra vero e falso, con l’effetto di produrre estese forme di disorientamento e di sfiducia collettiva.
Non si può fare a meno di osservare che in campo pubblico la parresia è un valore imprescindibile e assoluto, che deve sempre prevalere in qualsiasi circostanza, per quanto scabrosa possa essere la verità, valore che va comunque anteposto al c. d. utile politico.
Tra l’altro, la dissimulazione della verità in campo pubblico si pone in aperto contrasto con i principi giuridici della pubblicità, della trasparenza e della diffusione di informazioni da parte della Pubblica Amministrazione (cfr., da ultimo, il D.L. 14 marzo 2013 n. 33).
Non dobbiamo poi dimenticare che camuffare la verità in campo pubblico, oltre a sostanziare un contegno riprovevole ed a generare estese forme di smarrimento collettivo, nei singoli suscita la consapevolezza di non poter mai conoscere la realtà e la verità, che è quanto di peggio si possa immaginare.
Verità e violenza
In linea di principio, per affermare la verità non è mai richiesto l’uso della forza, della violenza, dell’aggressione verbale o reale, ma è sufficiente dimostrare e provare la situazione fattuale con estrema chiarezza e semplicità.
Vi sono varie forme di violenza, che per praticità sono qui ricondotte a due grandi categorie:
- violenza fisica, azione di forza impetuosa e aggressiva esercitata da una o più persone su altre;
- violenza morale, azione o atto volto a incutere timore, suggestione o assoggettamento, finalizzato a provocare un condizionamento psicologico di qualcuno.
In senso ampio, è violenza fisica ogni atto o comportamento che rechi danno a persone, a beni o a diritti, ed altresì ogni atto o comportamento con cui si costringa qualcuno alla sottomissione o si coarti la volontà di azione, di pensiero o di espressione.
È un esempio di violenza fisica anche lo sport agonistico (per non parlare dello sport di combattimento e dello sport estremo), inteso come attività fisica effettuata con fini competitivi, dietro lauti compensi. Il mondo degli sportivi professionisti, ben lontano dall’asserita capacità di diffondere valori di lealtà, tenacia, spirito di sacrificio, è asservito a speculazioni economiche, interessi politici, a corruzione e ad ogni sorta di astrusità. Ma volendo anche fingere di non sapere tutto ciò, resta il fatto che lo sport agonistico è una disciplina dell’atletica pesante, che presuppone il combattimento corpo a corpo fra contendenti sfruttando la forza muscolare, sostanziandosi in lotta dura, in simulazione di guerra e, in quanto tale, è violenza allo stato puro.
In senso ampio, è violenza morale l’atto che suscita timore in chi lo subisce, l’atto che fa temere di esporre sé o i propri beni a un male ingiusto.
Un esempio di violenza morale è quello di chi ricorre a forme di aggressione verbale per esprimere la propria idea. In genere, chi manca di prove tangibili, nell’intento di coprire oscure intenzioni, scopi illeciti o interessi occulti, pretende di imporre una falsa o deformata verità.
Similmente, anche chi inscena proteste incontrollate o assume tonalità omeriche denota spesso una posizione claudicante rispetto alla verità dei fatti o delle situazioni.
Chi detiene il potere, specie se è nell’errore e sa di esserlo, sovente, cerca di supplire con la violenza morale per dettare o far valere la propria volontà su chi si trova in posizione debole, imponendo così la ragione del più forte.
Il più delle volte, è quindi il potente che, facendo valere pseudo verità o pseudo diritti in funzione di propri interessi, si impone con forme di violenza morale sul debole, sapendolo nell’impossibilità o nell’incapacità di difendersi.
Le persone di indole sottomessa, timorate di ogni autorità e di ogni potere costituito, solitamente sono le prime vittime dei poteri forti e dei prepotenti, che non esitano ad approfittarne per imbastirci sopra i loro successi economici, politici o le loro carriere.
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A fare uso e abuso della condizione di forza è spesso la Pubblica Amministrazione e, parallelamente, le Società partecipate e gli Enti privati gestori di pubblici servizi. Questi, pur rivelandosi in difetto di dati ed elementi oggettivi di verità, spesso adottano provvedimenti di forza o intraprendono con estrema facilità le vie giudiziarie, ignorando volutamente che la vera formula di governo deve essere la ragionevolezza, la saggezza e il buon senso, non la forza.
La Pubblica Amministrazione e gli Enti precitati utilizzano spesso la loro posizione di forza per far valere presunti diritti o per vantare arbitrarie pretese su qualcosa, ricorrendo a forme coercitive di asservimento, onde mascherare scopi iniqui o coprire interessi politici di parte, ben sapendo che il cittadino non dispone di pari strumenti di difesa e il più delle volte manca dei necessari mezzi finanziari per difendersi adeguatamente.
In questi casi, l’azione pubblica si appalesa come un potere esercitato in modo arbitrario e perverso, come un’evidente forma di prevaricazione e di violenza, restando così ampiamente dimostrato che la forza del potere vale più della verità e della ragione.
A riguardo del menzionato rapporto «giustizia – diritto», caratterizzato dalla condizione di forza dell’Ente pubblico rispetto al cittadino, sono di alto pregio gli insegnamenti ciceroniani, desumibili dal De republica, tra cui fanno spicco i seguenti:
- la repubblica non può essere governata senza giustizia;
- ciò che si fa senza giustizia non può essere secondo il diritto;
- non bisogna chiamare o ritenere diritto le istituzioni inique a cui hanno dato vita gli uomini;
- è diritto solo ciò che deriva dalla giustizia;
- è grave errore identificare il diritto con l’utilità del più forte.
È nelle aspettative di tutti che le pubbliche istituzioni e i gestori di pubblici servizi si ispirino a equità, onestà e imparzialità, ed esprimano la propria volontà e il proprio potere con le armi della ragione, della forza morale, del convincimento e della persuasione, appellandosi principalmente al senso del dovere e della giustizia.
In ogni caso, il ricorso ad azioni di forza da parte delle Pubbliche istituzioni, delle Società partecipate e degli Enti privati gestori di pubblici servizi, non deve mai rivelarsi arbitrario, lesivo dei diritti altrui o poco rispettoso della dignità delle persone.
Le azioni delle pubbliche istituzioni devono anche essere di estrema irreprensibilità e non lasciare a desiderare sotto il profilo delle scelte decisionali, della correttezza e della legittimità, né tantomeno denotare mancanza di professionalità, qualità essenziali o capacità attitudinali in capo ai soggetti responsabili della res publica.
A fronte di atti di violenza o di azioni che rivelino una cattiva gestione della res publica non si può che provare un senso di delusione e tristezza, un senso di sconforto e di avvilimento psicologico, tanto più profondo quanto più grave è la forma di violenza, l’ingiustizia sociale perpetrata o il danno arrecato. Tali sono ad es. gli atti che:
- tendano ad imporre soluzioni illogiche, non al passo coi tempi o tecnicamente inidonee, dettate dalla sopraffazione o dall’arroganza del potere;
- tendano a favorire interessi di parte, a danno degli interessi della generalità;
- tendano a imporre soluzioni inidonee allo scopo, dettate da inettitudine o incapacità professionale;
- tendano a favorire interessi elettoralistici a danno del bene comune;
- tendano ad assecondare ideologie politiche piuttosto che soddisfare interessi generali;
- presentino evidenti aspetti di illegittimità, per violazione di legge o eccesso di potere;
- comportino sperpero del denaro pubblico, senza che ne derivi un’utilità pratica all’amministrazione e agli amministrati.
È appena il caso di accennare poi che i provvedimenti delle Pubbliche istituzioni, delle Società partecipate e degli Enti privati gestori di pubblici servizi, devono essere adottati non solo secondo legge ma anche secondo retta ragione e nel rispetto dell’ordine naturale e morale, universalmente riconosciuto.
I provvedimenti di natura diversa da questa, che vanno oltre la legge o i limiti del ragionevole, del conveniente e del lecito, a scapito dell’equità, dell’etica, della giustizia, del diritto, del bene comune, si denotano come soprusi e, in quanto tali, si qualificano sostanzialmente come vere e proprie forme di violenza sui singoli.
Gli organi istituzionali, i responsabili delle Pubbliche istituzioni, delle Società partecipate e degli Enti privati gestori di pubblici servizi, che abbiano posto in essere atti di violenza, atti lesivi di diritti, atti di sopraffazione o contrari a giustizia, meritano la disistima e la riprovazione pubblica.
A corollario di quanto sopra, è appena il caso di rammentare che, a norma dei vigenti dettati costituzionali (artt. 3 e 97 Cost.), le Pubbliche Amministrazioni sono tenute ad adottare provvedimenti che vadano a vantaggio di tutti, senza creare corsie preferenziali per alcuni cittadini o gruppi di essi.
Infine, si ricorda che le Pubbliche Amministrazioni, lungi dall’usare il potere con sistemi o mezzi violenti, sono tenute a creare le condizioni sociali che, nel favorire lo sviluppo integrale della persona, promuovano il bene comune, posto che quest’ultimo, in definitiva, costituisce la loro stessa ragion d’essere.
Verità e amicizia
A riguardo del binomio verità e amicizia, in campo letterario fa spicco il verso terenziano: hoc tempore obsequium amicos, veritas odium parit – di questi tempi l’adulazione procura gli amici, la verità i nemici (Terenzio, Andria, I, I, 14), riportato da Cicerone, che ne accentua il concetto: molesta veritas, siquidem ex ea nascitur odium, quod est venenum amicitiae, sed obsequium multo molestius, quod, peccatis indulgens, praecipitem amicum ferri sinit – infesta è la verità, se da lei nasce l’odio, che è veleno dell’amicizia; ma la compiacenza ossequiosa è molto più infesta, poiché lascia andare l’amico alla rovina, essendo indulgente verso i suoi difetti (Cicerone, Laelius De Amicitia ad T. Pomponium Atticum, XXIV, 89, 2 – 5).
L’idea che l’adulazione procura gli amici e la verità i nemici ricorre in vari classici latini (Lattanzio, Divinae Institutiones, V, 9, 6; Sant’Agostino, etc.).
La verità nei rapporti con gli amici è efficacemente rimarcata anche dal filosofo bizantino Ammonio di Ermia (ca. 440-523 d.C.) con la celebre frase: amicus Plato, sed magis amica veritas – Platone è mio amico ma mi è più amica la verità, da cui si evince che la verità deve prevalere sulle idealità e sui sentimenti. Il concetto deriva da un passo dell’Etica nicomachea di Aristotele, dove il grande filosofo greco afferma «benché entrambi mi siano cari, è sacrosanto privilegiare la verità», ad indicare che si devono sacrificare anche le amicizie personali se contrarie alla verità.
In linea con tale prezioso insegnamento, si devono sacrificare anche le amicizie personali se contrarie alla verità, in quanto l’alto dovere morale di preferire la verità dovrebbe prevalere sempre ed ovunque. La verità e la sincerità sono più importanti di ogni cosa e devono venire prima di ogni cosa, financo dell’amicizia, pur essendoci care entrambe.
Lo stretto rapporto verità – amicizia traspare poi dall’insegnamento di San Girolamo: amicitia quae desinere potest vera numquam fuit – l’amicizia che poté cessare non fu mai vera amicizia (Epistulae, III, 6), che riprende il topos dell’eternità della vera amicizia, già attestato nella classicità (Cicerone, De amicitia, IX, 32). In breve, sottolinea l’insincerità di quei rapporti che cessano col cessare degli interessi o delle cause che li hanno originati, riaffermando che la vera amicizia non viene mai meno, neppure in presenza di una verità sgradita, spiacevole o incresciosa.
Sul tema dell’amicizia si basa pure il puntuale aforisma del grande scrittore e aforista francese Sébastien-Roch Nicolas (noto come Nicolas de Chamfort, 1741-1794): «nel mondo avete tre tipi di amici: quelli che vi amano, quelli che non vi danno la giusta attenzione e quelli che vi detestano», che sottolinea l’insicurezza e la precarietà del binomio «verità-amicizia».
In tema, anche il cinico scrittore irlandese Oscar Wilde (1854-1900) ci ha lasciato un salace aforisma: «un vero amico è chi ti conosce molto bene e, nonostante questo, continua a frequentarti».
Il frammento terenziano veritas odium parit, tratto dal verso riportato nella frase introduttiva del presente argomento, è oggi ripreso nel linguaggio corrente per far capire che dire in faccia la verità il più delle volte non fa certo piacere e chi lo fa, spesso, va incontro all’inimicizia della persona interessata.
Dello stesso tenore è pure il detto della tradizione proverbiale: «nascondendo la verità ti fai un amico, dicendo la verità ti fai un nemico».
Oggi, al pari di ieri, dobbiamo amaramente constatare come nei rapporti di interazione con altri, a ragione o a torto, la verità sia spesso taciuta, non rivelata, unicamente pro bono pacis, all’unico fine di non turbare il buon accordo o la tranquillità.
Dalle riflessioni che precedono emerge che, fra le tante anomalie, difetti e debolezze umane, figurano non solo nemici dichiarati ma anche falsi amici, dai quali è quasi impossibile difendersi. Da qui il vecchio detto popolare: «dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io!».
In ultima analisi, preme sottolineare come il concetto di «amico vero», unitamente a quello di «amicizia sincera», in stretta correlazione con l’alto valore della verità, siano esaltati all’infinito dalla letteratura latina, dalle tradizioni proverbiali e dalla cultura letteraria moderna, magnificando l’uno e l’altro in tutti modi.
Chi vuole coltivare una buona amicizia e renderla duratura deve amare la verità e armarsi di pazienza, non esitando a mettersi in gioco, pronto a rivelarsi per quello che è, senza infingimenti di sorta.
Occorre poi essere sempre disponibile, rapportarsi all’altro con discrezione e saper coltivare il rapporto nel tempo, anche in caso di distanza fisica tra i due, assodato che il sentimento autentico di vera amicizia è gratuito e non teme lontananza.
Un rapporto di vera amicizia è basato su verità, parresia e rispetto reciproco, quali presupposti indispensabili per creare sinceri spazi di confronto, in cui ognuno espone le proprie paure, fragilità, esperienze di vita, senza reticenze.
Verità e libertà
Questi due grandi concetti implicano ampie riflessioni, in accostamento alle molteplici discipline e ai vari campi della conoscenza, sia singolarmente che sotto il profilo relazionale, riflessioni che trascendono peraltro la portata e i caratteri peculiari eminentemente pratico-esplicativi del presente saggio, per cui ci si limiterà a qualche aspetto e a qualche idea di carattere generale.
Per «verità», come detto anche più sopra, si intende ciò che è rispondente alla conoscenza, al vero, alla realtà delle cose e dei fatti, ai valori, alla natura, mentre invece per «libertà» si intende non condizionalità, autonomia, possibilità di opzione, assenza di costrizioni esterne (sociali, politiche, istituzionali) e interne (auto-asservimento, sottomissione mentale). Per «libertà» si intende anche auto-determinazione e quindi possibilità di assumere decisioni, scelte, convinzioni e orientamenti, in modo interamente personale.
In linea di principio, la conoscenza della verità dovrebbe essere un diritto naturale di tutti gli uomini, mentre invece nella realtà odierna registriamo limitazioni e condizionamenti di vario ordine, oltre ad una diffusa alterazione della verità e ad un uso massificato di ogni forma di inganno.
Oggi, a giudicare dalle forme e dai modi con cui ci viene prospettata la realtà, si ha la netta sensazione che dette snaturate concezioni di verità e di vita non siano comportamenti immorali ma siano divenuti abituali strumenti dei furbi.
È di tutta evidenza che tali modi comportamentali vanno a detrimento della verità, sia sotto il profilo individuale che sociale, e originano forme falsate di libertà.
Inoltre, simili modi comportamentali stridono col diritto di ogni persona di essere riconosciuta come essere libero ed altresì con l’ulteriore diritto al più ampio esercizio delle libertà individuali.
In particolare, ogni persona, in ragione della stessa dignità umana che la contraddistingue, deve poter scegliere il proprio stato di vita e deve godere piena libertà di manifestare le proprie idee politiche, culturali, religiose, senza restrizioni di sorta.
In assenza di libertà gli atti dei singoli non possono considerarsi spontanei, naturali o riflessi, ma compiuti sotto coercizione e quindi non possono rientrare nel novero degli atti etici.
Da questi brevi cenni deriva che l’idea di libertà non può essere disgiunta dai fondamentali valori della dignità della persona e della verità.
Non dobbiamo però dimenticare che la «libertà», ovvero l’indipendenza e l’autonomia della persona, implica sempre una scelta individuale la quale, a sua volta, può essere relativamente condizionata, vincolata a leggi, a norme morali, sociali, etc.
Tali peculiarità indicano che, in un’ordinata vita sociale, la libertà non può essere «assoluta» ma deve necessariamente abbinarsi a norme, ordine e disciplina.
Gli studiosi di antropologia culturale sostengono per l’appunto che la «libertà assoluta» è un mero ideale utopistico nel sistema di vita del mondo occidentale, senza contare che condurrebbe inevitabilmente al rigetto delle regole morali e dei principi etici.
Non solo è da escludersi la «libertà assoluta» ma nella complessa realtà in cui viviamo, caratterizzata da intricate circostanze e da condizionamenti imposti dai rapporti sociali, giuridici e politici, i singoli sono indotti a formarsi un volere che, spesso, è influenzato da fattori esterni.
Ben altra cosa è la «libertà interiore», che è una qualità morale e una scelta di vita caratterizzata da valori e virtù individuali.
L’enorme rilevanza del rapporto interiorità-libertà è sottolineato dall’insigne poeta tedesco Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) con l’espressione:
«nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo dentro di sé».
Da tale estrinsecazione si può facilmente desumere come la libertà interiore, se è retta e genuina, non possa assolutamente conciliarsi con condotte che denotino qualità negative, quali sono ad es. l’ingiustizia, la disonestà, la perfidia, l’illegalità, l’offesa, l’umiliazione, la sopraffazione, etc., tutte connotazioni che, tra l’altro, favoriscono il declino sociale.
Chi, nella propria interiorità, ordisca simili dissennatezze dimostra assenza totale di qualità morali e rivela scelte di vita caratterizzate da assenza di valori.
Queste brevi riflessioni fanno capire che la libertà «interiore» è cosa ben diversa da quella «esteriore» di chi, come detto sopra, è indotto ad assumere condotte che risultino in toto o in parte condizionate da leggi, regole o esigenze di convivenza sociale che, di fatto, limitano fortemente la libertà individuale.
Il neurologo e psichiatra austriaco Sigmund Freud (1856-1939) ha citato più volte la frase evangelica «la verità vi farà liberi» (Giovanni, VIII, 32), per far capire che affranca da falsi idoli (denaro, potere, sesso), onde affrontare meglio le prove della vita, le malattie, le insidie del mondo, le ansie e le paure quotidiane.
Ne deriva che si deve sempre tendere a fare salva la verità oggettiva, sia nella vita personale che sociale, prendendo come criterio per le proprie scelte la verità sul bene e sul male e non il proprio vantaggio o il proprio interesse.
Qualcuno è pronto ad accogliere l’idea che nella realtà quotidiana «non c’è verità oggettiva, che ciascuno ha un suo punto di vista sulla verità, che ci sono tante verità quanti i punti di vista».
Chi abbraccia simile tesi relativistica, spesso di comodo, finisce per rinunciare alla ricerca della verità, perché ammettere tante verità vuol dire negare l’esistenza di un mondo reale, disconoscere le materie, le cose e gli oggetti stessi con cui si è in relazione.
Non dobbiamo mai dimenticare che dietro al relativismo, spesso, palpitano ideologie, interessi soggettivi o situazioni particolari, attraverso cui si tende a giustificare determinate tolleranze o devianze che non hanno nulla a che vedere con i valori etici e morali.
Inoltre, l’idea del relativismo, oltre a far venire meno e svilire la legittima pretesa di ognuno a conoscere la verità, finisce per esporre l’individuo all’arbitrio dei poteri forti, quali sono quelli politici, delle organizzazioni economiche e finanziarie, nonché degli assetti culturali di estrazione materialistica.
È ben vero che possono coesistere varie «ombre e forme di verità», ma queste però devono avere come comune denominatore la realtà e la sincerità e devono porsi in connessione con l’idea di realtà e di sincerità, in corrispondenza con le cose e i fatti, come si avrà modo di chiarire al successivo Capitolo IV.
Se esaminiamo attentamente la situazione dei nostri tempi sembra di vivere in una società dominata da deteriorati assetti politici, economici e culturali propri di una concezione individualistica ed egoistica di libertà, dove:
- la libertà dei più forti ha il sopravvento sui deboli,
- la libertà è usata unicamente a proprio vantaggio senza rispettare i diritti altrui,
- la libertà dei potenti diventa arbitrio per i sottoposti e gli indifesi.
In altri termini, si ha la sensazione di vivere in una società in cui la concezione individualistica ed egoistica di libertà serve solo a coprire o giustificare un utilizzo arbitrario del potere, dove la libertà dei potenti diventa violenza per i sottomessi e i deboli (amplius, cfr. la voce: Verità e violenza, in questo stesso Capitolo).
In tale genere di società, dove si vuole affermare il proprio io e dove si vuole fare prevalere i propri interessi a danno degli altri, non si può parlare di libertà.
Se si vuole che nella società sia garantito a ciascuno il massimo di libertà possibile e nel contempo sia garantita la dignità di ogni persona umana, bisogna trattare allo stesso modo gli equivalenti diritti e interessi degli altri e adoperarsi per cercare qualche forma di compromesso per una giusta definizione delle reciproche aspettative.
Lo scrittore britannico Harold Acton (1904-1994) ha scritto causticamente che «libero non è solo colui che fa ciò che vuole, ma anche colui che è nella possibilità di fare ciò che deve», lasciando intuire che attraverso l’uso arbitrario del potere si può condizionare la libertà individuale.
Si può aggiungere, in linea ideale, che è «libero» chi è svincolato da costrizioni politiche o sociali, da imposizioni esterne, da soluzioni precostituite, dal dover ossequiare, da falsi timori, dall’ossessione di dover compiacere, etc.
In linea ideale, non v’è dubbio che la convivenza fra gli esseri umani deve fondarsi sulla verità, come ci insegna San Paolo, «via dunque da voi la menzogna e parli ciascuno col suo prossimo secondo verità» (Lettera agli Efesini, IV, 25), come deve anche fondarsi sulla giustizia, oltre che sull’effettivo rispetto dei diritti e leale adempimento dei propri doveri.
A riguardo dello stretto rapporto verità – libertà, la Chiesa insegna che «non esiste autentica libertà senza la verità». Verità e libertà «o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono» ha scritto Giovanni Paolo II. Sul punto, la Nota dottrinale 24-XI-2002 n. 6 della Congregazione per la Dottrina della Fede, precisa: «in una società dove la verità non viene prospettata e non si cerca di raggiungerla, viene debilitata anche ogni forma di esercizio autentico di libertà, aprendo la via ad un libertinismo e individualismo, dannosi alla tutela del bene della persona e della società intera» (amplius, cfr. Capitolo V).
Verità fattuali e verità politiche
Le pubbliche istituzioni sono soggetti di diritti e di doveri, in parte uguali ed in parte diversi da quelli propri dei cittadini, e i loro rapporti, nei vari aspetti, devono svolgersi secondo principi di giustizia, di correttezza, di eticità, di solidarietà e di verità.
Inoltre, in linea ideale, i loro rapporti relazionali non possono che ispirarsi a serena obiettività e regolarsi nella verità e nel reciproco rispetto, aspetti questi che si devono intravedere in ogni esternazione di pensiero e, soprattutto, in ogni attività.
Va da sé che i soggetti preposti al governo delle pubbliche istituzioni, per poter operare con efficacia, devono avere la necessaria competenza presupposta dalla carica ricoperta, essere tecnicamente capaci e professionalmente esperti, oltre a possedere alte qualità umane e spiccate doti morali.
Nello stesso tempo, è necessario che i responsabili delle pubbliche istituzioni abbiano una conoscenza adeguata della realtà fattuale, con uno spiccato senso della moralità, che affinino sempre più le cognizioni culturali e scientifiche ed altresì che vivano la carica pubblica e svolgano i compiti istituzionali come adempimento di un dovere civico e con spirito di servizio.
È poi di fondamentale importanza che i responsabili delle pubbliche istituzioni, della res publica, siano aperti all’idea della conoscenza della verità, senza della quale non possono che operare nel buio e vagare senza meta.
Se i responsabili delle pubbliche istituzioni vogliono conoscere le cose come stanno realmente, se vogliono conoscere «la verità fattuale», non possono certo accampare scusanti per non farlo, in quanto dispongono sicuramente di uomini e mezzi per venirla a conoscere.
I personaggi politici, i responsabili delle istituzioni e i dirigenti di animo perverso, che mirano a fini diversi da quelli istituzionali veri e propri, è evidente che valutano la verità fattuale come un ingombro, una vera e propria limitazione, incompatibile con le loro ideologie, con i loro programmi politici o con gli interessi elettoralistici che intendono celatamente assecondare.
Tali squallidi personaggi non hanno scusanti e meritano la disistima e la riprovazione pubblica in quanto rinunciano a conoscere le verità fattuali scomode o decidono sfrontatamente di ignorarle.
Nelle menti bacate di questi personaggi, la capacità di vedere le cose come indubitabilmente stanno, la capacità di dire la verità, la capacità di far valere pubblicamente la verità, non è considerata una dote ma piuttosto un’imperdonabile ingenuità, se non un pericoloso difetto.
Detti squallidi personaggi politici sono ossessionati dall’idea di convincere chi ascolta, di creare convergenza di valutazione, poco importa che travisino la verità, che riferiscano in modo infedele la verità, che prospettino ombre di verità, che le loro argomentazioni siano lontane dalla verità, l’importante è riuscire a far prevalere le ideologie, i programmi o gli interessi che intendono celatamente assecondare.
Simile agire politico basato sulla menzogna, considerato come un ordinario strumento per l’esercizio del potere, in ossequio al deprecabile motto machiavellico «governare è far credere», è sostenuto anche da qualche compiacente letterato o filosofo di parte che, con erudite e sofisticate dissertazioni scientifiche, non esita a giustificare le più distorte e snaturate alterazioni della verità in campo politico.
Ad avviso di chi scrive, non è assolutamente vero che il politico, il responsabile della res publica (ispirandosi alla perversa figura immaginata da Machiavelli), deve «imparare a mentire», al contrario, deve ispirarsi al pensiero euripideo della parresia (cfr. Capitolo I), ossia al diritto-dovere civico e morale di dire la verità.
L’adulterazione e l’occultamento della verità da parte dei politici e responsabili della res publica, così come la visione distorta delle cose, altro non che è un’abiezione d’animo, di pensieri e di costumi, uno stato di vergognosa degradazione morale della persona umana, è la più avvilente caduta nel disonore che si possa immaginare.
I politici e i responsabili della res publica di animo perverso che ricorrono al turpe modus operandi della «politica senza verità» denotano la perdita totale della propria dignità, calpestano e offendono quella degli inermi e impotenti cittadini, quali ignari destinatari dei loro inganni e raggiri, che si vedono traditi proprio da coloro cui hanno accordato e riposto la fiducia.
Da detti soggetti i cittadini si attendono attitudini al bene comune, condotte etiche e doti morali di sincerità, onestà, trasparenza, correttezza, e non certo spregevoli contegni del genere sopra citato.
È nelle aspettative di tutti che i soggetti in questione siano guidati dall’intelligenza e non dalla faziosità, che siano coerenti con la verità e con i dettami della retta ragione, che siano buoni interpreti delle giuste aspirazioni dei cittadini.
Inoltre, dalle persone investite di pubbliche funzioni i cittadini si aspettano ineccepibili linee comportamentali, postulate dalla stessa natura umana, scaturenti da esigenze di verità insite nell’ordine morale, riconducibili alla sfera dell’onestà concettuale e del diritto naturale.
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Fermo restando quanto sopra, al pari dei privati cittadini, ogni pubblica istituzione ha diritto al rispetto da parte di tutte le altre istituzioni ma ha anche il corrispondente dovere di svolgere i propri compiti secondo giustizia e in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità (art. 97 Cost.).
Gli eventuali contrasti di interessi tra pubbliche istituzioni vanno risolti nella continua ricerca della verità, nella reciproca comprensione e non certo con metodi artificiosi o ingannevoli, né tanto meno con ricorsi giurisdizionali.
A dispetto dei principi testé ricordati, le pubbliche istituzioni sono ambienti dove, spesso, regna una sostanziale mancanza di corrispondenza con la verità fattuale e dove negli animi perversi dei «signori della politica» impera per antonomasia la menzogna. È noto lippis et tonsoribus che negli ambienti politici tutto è contraffatto e intenzionalmente falsificato, si trovano false amicizie, si proclamano falsi scopi, e si mette tutto in falsa luce.
Per questi motivi, ai nostri giorni, si ha la sensazione che gli ambienti della politica siano accessibili solo ai professionisti della menzogna, che divengono tali unicamente previo superamento di pratiche dimostrazioni di capacità menzognere.
I «signori della politica», mentitori per antonomasia, elevano la menzogna ad una vera e propria attività professionale, spadroneggiano avvalendosi di carte false, gestiscono le vicende politiche con le armi della doppiezza, della fandonia, dell’ipocrisia, dell’inattendibilità, dell’infondatezza, delle allusioni e delle illusioni.
Tra le spregevoli condotte e le esecrabili armi che utilizzano gli istrioni «signori della politica» per occultare o snaturare la realtà fattuale figurano ad es. le seguenti:
- partono dall’idea che con la verità non si ottiene nulla e non si va da nessuna parte;
- edulcorano le arretratezze dell’Italia, facendo leva anche sui mezzi di comunicazione di massa;
- rapportano la nostra realtà a quella del mondo orientale, evitando il confronto con le civiltà e il progresso degli altri Paesi europei;
- usano ufficialmente la «trasparenza» come bandiera, mentre nei fatti sono i più raffinati simulatori;
- conoscono solo l’ipocrisia e l’abiezione nel loro agire politico e non si fanno riguardo per alcuno;
- manipolano a proprio favore le notizie per indebolire gli avversari;
- alterano sistematicamente i fatti e gli eventi facendo in modo che possa ben figurare il proprio partito, a danno di altri, al fine di attirare nuovi iscritti e nuovi simpatizzanti ma anche al fine di accreditarsi prestigio e popolarità;
- mistificano le coscienze, al fine di uniformarle alle ideologie e agli interessi elettoralistici del partito di appartenenza;
- creano una sorta di assopimento delle coscienze degli iscritti al partito e dei vari simpatizzanti affinché possano emergere e svilupparsi senza patemi di sorta le ideologie, le demagogie e gli interessi del partito;
- parlano e operano solo secondo l’utile del partito di appartenenza, o in funzione della relativa ideologia, prescindendo dalle reali ed oggettive necessità ed esigenze dei cittadini;
- nel parlare abusano della vaghezza e della genericità, ben sapendo che la parola, politicamente, è tanto più utile quanto più è ambigua;
- si danno arie di sapere ogni cosa, avendo imparato che l’abilità nel fingere è sicura garanzia di carriera politica.
In breve, si ha la netta sensazione che gli istrioni «signori della politica», a giudicare da come si comportano, siano abili adulteratori della realtà, onde assecondare celate ideologie, bieche demagogie, propositi politici o interessi elettoralistici.
Non possono che essere questi i motivi per cui detti signori, nell’intento di rendere accettabile la loro conduzione politica e di sfuggire alle loro responsabilità politiche e morali, fanno molta fatica a usare il semplice linguaggio della verità.
Tutto ciò conferma e rafforza l’idea che nell’astruso mondo della politica l’importante è apparire e far credere, mondo in cui si conosce e si pratica solo la parresia falsa e, di contro, non si sa cosa sia la parresia veritiera, infischiandosi del fatto che in questo modo vengono mortificati gli ignari cittadini (amplius, cfr. supra la voce: Inclinazione ad occultare la verità).
Rebus sic stantibus, per invertire la rotta serve una profonda catarsi morale e politica da parte dei «signori della politica», in ossequio alla verità e dovuto rispetto per i cittadini, spudoratamente umiliati.
In assenza di un preciso impegno in questo senso da parte di detti signori, ai cittadini non rimane che ricordarsene nel segreto delle urne.
Verità e dialettica politica
In linea di principio, in ogni genere di rapporti, privati o pubblici, si dovrebbero usare parole di significato comprensibile alla generalità delle persone, parole tanto più vere ed apprezzate quanto più rispecchino l’animo di chi le usa e rechino traccia della sua personalità.
Ai nostri giorni, i «signori della politica», e nondimeno i mezzi di comunicazione di massa, fanno un uso sempre più spregiudicato di parole inglesi e di termini tecnici, ben sapendo che la stragrande maggioranza delle persone non è in grado di capire il significato.
Questo modo di esprimersi senza farsi capire è semplicemente insensato agli occhi dei comuni mortali, offensivo della dignità delle persone, in reale contrasto con le più elementari norme del buon senso, con il comune modo di pensare, e quindi inaccettabile sul piano logico, pratico, morale.
I «signori della politica», a giudicare da come si esprimono, sembra abbiano ceduto al partito di appartenenza non solo la mente e la ragione ma anche il buon senso, si presume su istruzioni o tacito assenso del partito medesimo.
Ed a proposito del buon senso, per chi intender voglia, si richiama lo stupendo epigramma del poeta Giuseppe Giusti (1809-1850):
«il buonsenso, che già fu capo-scuola
ora in parecchie scuole è morto affatto;
la scienza, sua figliola,
l’uccise, per veder com’era fatto»
L’assenza di mente, ragione e buon senso nei «signori della politica» desta non poca preoccupazione posto che, come ben sappiamo, difettano pure di senno e dignità, figuriamoci responsabilità!
Se le masse non sono in grado di comprendere le parole inglesi e non hanno la cultura sufficiente per capire i termini tecnici utilizzati ad effetto da detti signori, viene spontaneo chiedersi perché li usano in continuazione con tanta pervicacia?
È presto detto, paradossalmente, lo fanno proprio per non farsi capire!
Il perfido intento di questi sfrontati signori, che ricorrono sempre più all’inglesismo e che usano un linguaggio volutamente tecnico e settoriale, è quello di inculcare l’idea che la politica e la conduzione della vita pubblica non sono alla portata della gente comune ma solo delle persone colte e altamente ispirate, dotate di qualità eccelse, tali si reputano solo loro stessi.
È un modo subdolo per mettere a disagio e costringere al silenzio le masse popolari che, davanti a tanta supponenza dei «signori della politica» si sentono confuse e finiscono per provare una sensazione di avvilimento.
Ma quale sarà il vero motivo per cui detti arroganti signori possono permettersi di mortificare e umiliare in questo modo le masse popolari, costringendole a rassegnarsi ed a subire passivamente ogni sorta di aggressione di inglesismi e di parole tecniche? Sarà l’alba di una nuova civiltà politica?
L’intenzionale intendimento di detti insolenti signori non può che essere quello di ottenere il mutismo delle masse popolari e, una volta raggiunto, tutto il resto per loro passa in secondo piano.
Un simile nefando modo di esprimersi degli istrioni «signori della politica» richiama alla mente l’ode oraziana: favete linguis, carmina non prius, audita musarum sacerdos, virginibus puerisque canto – favorite con il silenzio, io sacerdote delle Muse canti mai uditi prima sciolgo a vergini e fanciulli (Orazio, Odi, III, I, 2-4), da cui emerge che il pubblico è invitato ad apprestarsi al raccoglimento e a non rompere la sacralità del silenzio.
I politici sanno manovrare molto bene l’arma della parola, nessuno meglio di loro conosce l’incredibile potere e forza della parola, l’importanza strategica della parola, chiave di volta che consente di risolvere qualsiasi oscura vicenda o losco intrigo di corte.
In campo letterario, l’incredibile potere della parola è sottolineato da molti grandi maestri, sia della classicità che moderni, di cui si riporta qualche pensiero:
- «la forza dell’uomo è nella lingua e la parola è più potente di ogni arma», massima del maestro spirituale egizio Ptahhopte (ca. 2500 a. C.), che considera la parola un potenziale strumento di offesa e di difesa, capace di colpire gli avversari;
- «la parola serve a non rivelare o a nascondere il pensiero», caustica massima dell’uomo politico e diplomatico francese Talleyrand-Périgord (1754-1838) riportata nelle sue Memoires;
- «le parole sono la più potente droga usata dal genere umano», massima dello scrittore e poeta britannico Joseph Rudyard Kiplin (1865-1936);
- «il linguaggio politico è costruito in modo da conferire alle bugie l’apparenza della verità e da far sembrare solido ciò che è soltanto aria», massima del romanziere e saggista inglese George Orwell (1903-1950).
Gli istrioni «signori della politica» sembra provino uno struggente sentimento di devozione, se non di venerazione, verso tutte indistintamente le massime citate, alle quali non mancano di dare, quotidianamente, puntuale e pratica attuazione con convinzione e grande passione.
Tutto ciò per far capire il fascino e la straordinaria forza della parola, di cui abusano detti signori, sapendo fin troppo bene che si tratta di un potente e travolgente strumento per influenzare l’opinione pubblica, per dominare il volgo, la vita politica e sociale.
Altro nefando infallibile espediente a cui sono ricorsi i dittatori e i regimi di tutte le epoche, pedissequamente adottato anche da Benito Mussolini (1883-1945), è sempre stato quello di mantenere le masse nell’ignoranza.
Ed ancora oggi, in tempi di democrazia, tale infame espediente non è certo disdegnato dagli istrioni «signori della politica» in quanto, di fatto, seguono il turpe retaggio di regnanti e governanti di ogni epoca, che si compendia negli spregevoli motti:
«se volete il popolo obbediente tenetelo povero e ignorante»
«tenete il popolo ignorante e vi sarà fedele»
In omaggio a tali motti, infatti, i «signori della politica» non esitano a togliere risorse alla scuola, e più in generale alla cultura, con la mascherata motivazione che «con la cultura non si mangia».
In questo modo, detti signori hanno facile gioco nella gestione del potere e nell’influenzare l’opinione pubblica: tanto più elevato è il numero di chi non può comprendere quanto più sicuro è il loro trionfo.
Ulteriore esecrabile espediente a cui ricorrono i «signori della politica» è quello di avversare ogni forma di innovazione e di miglioramento, di assecondare giochi di potere, clientelismi e favoritismi, connotazioni queste che denotano arretratezza politica, sociale e culturale.
In un simile stato di cose esultano le mafie e le organizzazioni criminali, la cui forza sta proprio in questo genere di gestioni e nel poter contare sull’ignoranza delle masse popolari.
Su tutto e verso tutti, oggi più che mai impera la dialettica politica con i suoi segreti del mestiere, che gli istrioni «signori della politica» serbano e difendono molto gelosamente, tra cui primeggia l’uso smodato di affermazioni generiche, di vaghe asserzioni, in modo che le enunciazioni si prestino a molteplici interpretazioni.
Il detto medievale in generalibus latet error – nelle affermazioni generali si annida l’errore, che è l’adattamento di un topos della letteratura latina, compendia il disdicevole modo di esprimersi dei citati signori, detto che costituisce il segreto del mestiere e il punto forte dell’attuale dialettica politica.
Nell’uso di tale segreto del mestiere i «signori della politica» sono professionisti per antonomasia, si esprimono con indeterminatezza e genericità e, con roboanti espressioni prive di concretezza, non si limitano a darla ad intendere ma sono arrivati al punto di sfruttare la dabbenaggine della gente comune e di prendersi gioco della stessa.
Se questo è il modo di intendere la dialettica da parte dei «signori della politica», dobbiamo stare molto attenti perché le loro doti di grandi oratori e di esprimersi con loquela sono funzionali solo all’offuscamento dei fatti e all’occultamento della realtà oggettiva.
In breve, alla faccia della franchezza e della verità, della parresia, del diritto-dovere civico e morale di dire la verità (cfr. Capitolo I), il modo di esprimersi di detti signori, per le ragioni di fondo sopra riferite, è permeato di finzione e le relative espressioni oratorie, nella loro enfaticità e solennità, si rivelano sostanzialmente vuote di significato.
La dialettica è genericamente intesa come l’arte del bel parlare, l’arte del discutere, l’arte del ragionare, e per estensione come la capacità di presentare le proprie argomentazioni in forma particolarmente serrata e convincente.
Se concepita in questo senso, l’abilità dialettica è un pregio ma diventa un detestabile malcostume quando i politici la usano per fini disonesti, per occultare la realtà o per offuscare quello che andrebbe detto in modo chiaro e senza infingimenti.
Nel consueto vaniloquio filosofeggiante e sterile dei «signori della politica», l’abilità dialettica intrisa di inglesismo, di parole tecniche o prive di significato pratico, è sicuramente un detestabile malcostume in quanto serve per nascondere il veritiero pensiero sotto una stupefacente varietà di espressioni e formule incomprensibili ai più.
Il carattere predominante dell’odierna dialettica politica è sempre più formale, basato su parole che non parlano, impiegate in modo puramente strumentale e sterile, incapaci di dare una qualche indicazione convincente.
Questo genere di dialettica richiama alla mente il celebre monito di Sant’Agostino: tantum ibi cavenda est libido rixandi et puerilis quaedam ostentatio decipiendi adversarium – nell’usarla (la dialettica) occorre evitare la smania di discutere e quella specie di ostentazione puerile di far cadere in trappola l’avversario.
Il «discutere per il gusto di farlo» è aspramente criticato anche dal filosofo e teologo francese Pietro Abelardo (1079-1142), che evidenzia come la dialettica sia sicuramente utile per penetrare taluni particolari problemi, purché non divenga una libido rixandi, ossia non venga usata per un mero «desiderio di discutere fine a se stesso». Il filosofo mette in guardia dall’uso di sofismi, cioè di ogni genere di ragionamenti capziosi, in apparenza logici ma sostanzialmente fallaci, finalizzati solo a trarre in inganno.
Oggi, il vaniloquio sterile e i sofismi sono abituali spregevoli strumenti degli istrioni «signori della politica», che li impiegano come perfidi mezzi per ben figurare in ogni circostanza, fondati non sull’arte del ragionare, del discutere, ma sulla tecnica del convincimento e della persuasione attraverso la finzione, l’illusione, l’ideologia e l’inganno.
Il loro, infatti, è un parlare capzioso che va alla ricerca di subdoli assunti e di abbellimenti verbali, onde distogliere l’attenzione dei cittadini dalla realtà e dall’essenza dei problemi, eludendo in tal modo il precipuo dovere civico e morale di parresia, cioè del parlare chiaramente, schiettamente e responsabilmente.
Da come si esprimono i «signori della politica» si ha la sensazione di assistere a una rappresentazione scenica, con protagonisti che appaiono dei veri e propri prestigiatori della politica, per i quali ciò che conta è solo l’apparenza e non certo la sostanza.
Un simile modo di fare politica in vacuo spaventa e preoccupa, perché denota irresponsabilità e incoscienza generale, inettitudine e inconcludenza, di proporzioni enormi, il tutto a danno degli sventurati e impotenti cittadini.
Detto genere di dialettica politica, di cui fanno ampio sfoggio gli istrioni «signori della politica», oltre ad essere di cattivo esempio, costituisce la negazione dell’etica, della deontologia e della morale comune.
Si ha fondato motivo di ritenere che per reggere le sorti di un Paese non servano politici che sanno solo allestire il teatrino della politica, ammaliando e ingannando le folle con il loro colorito quanto illusorio linguaggio, ma servano persone serie e assennate che non abbiano remore nel far conoscere la verità e che sappiano affrontare responsabilmente i problemi della comunità.
Verità nella malattia
La voglia di conoscere la verità, sempre e comunque, è sicuramente giusta ma ci sono però peculiari situazioni in cui qualcuno preferisce non sapere. Una di queste è sicuramente la malattia, o meglio lo stato di persona inferma.
Ma anche rovesciando i termini della questione sui familiari, ci si chiede se è giusto nascondere al malato terminale la drammaticità della sua situazione, la cruda e terribile realtà della sua malattia, non rivelare la verità e quindi la gravità delle sue condizioni.
Non è certamente facile rispondere a questo interrogativo per ragioni di vario ordine.
Si deve anzitutto considerare che le condizioni psico-fisiche del malato terminale sono molto delicate, oltre a variare da persona a persona, e altresì che l’espressione dei propri sentimenti in tali contesti è spesso problematica, non solo per il malato ma anche per gli stessi familiari che seguono l’evolversi della malattia.
Da un lato, parrebbe importante che il malato terminale venga informato sulla sua condizione, in modo che sappia cosa lo aspetta e si prepari ad affrontare la dura realtà.
Dall’altro lato, rivelare la triste realtà, cioè dare comunicazione sul decorso della malattia, della sua possibile evoluzione, della terapia praticata e dei suoi effetti collaterali, potrebbe significare disperazione e abbattimento per il malato, stati psicologici del tutto negativi che potrebbero aggravare la già problematica situazione.
Nel caso si propenda per la prima soluzione, quella cioè di informare il malato sulle sue reali condizioni, secondo gli psicologi, sono aspetti non trascurabili i seguenti:
- quando dare l’informazione al malato circa la sua malattia, il momento più adatto per farlo;
- dove comunicare la diagnosi, in ospedale, presso la sua abitazione o altrove;
- chi sia la persona più adatta per la comunicazione, medici o familiari, che sappia informare il malato senza toglierli la speranza ma anche senza illuderlo.
Un ulteriore aspetto molto importante è costituito dal praticare o meno determinate cure o trattamenti sanitari che, pur prospettandosi opportuni, potrebbero contrastare con valori umani o morali in cui il malato crede, dettati soprattutto da fedi religiose ma anche da tradizioni.
Al fine di porre in atto una terapia adeguata, secondo gli psicologi, è poi consigliabile un dialogo continuo ed aperto tra medico e assistito, in cui saranno resi noti i possibili sollievi ma anche i possibili effetti collaterali che possono manifestarsi con l’assunzione di determinati farmaci.
È altresì auspicabile che il medico instauri un rapporto fiduciario con il suo assistito, lo faccia sentire a proprio agio, lo tenga informato, lo coinvolga nelle decisioni da prendere, lo incoraggi e, anche con l’incentivo dei familiari, faccia in modo che non si senta isolato.
Si ritorna ancora al problema di fondo sull’opportunità di una chiara e aperta comunicazione, di rivelare o meno al malato terminale lo stato di malattia. Secondo l’orientamento prevalente, la scelta non può comunque prescindere da alcuni fattori individuali, quali: l’età, lo stato della malattia, il grado di cultura, la situazione familiare.
Qualora si propenda per la prima soluzione, quella di informare il malato terminale, non si potrà comunque ignorare l’equilibrio psicologico del medesimo, nel senso che, secondo l’idea dei più, è consigliabile dirgli la parte di verità che è in grado di sopportare in quel determinato momento, senza mai togliergli la speranza in un possibile evolversi favorevole della situazione.
Qualora si propenda per la seconda soluzione, quella di non informare il malato terminale delle sue reali condizioni, di non manifestare la dolorosa verità, di evitare che gli venga spiattellata la diagnosi, se non nei casi di particolare evidenza, secondo gli esperti, sono aspetti non trascurabili i seguenti:
- il fatto che il paziente possa dubitare di essere ingannato, sia pur per nobile motivo, potrebbe logorare ancor più la sua esistenza, fino a renderla insopportabile;
- il fatto che il paziente non voglia sapere la verità e preferisca ingannarsi sino all’ultimo, pensando così di affrontare meglio la triste realtà;
- il fatto che il paziente non voglia sapere la verità preferendo mascherare un dolore eccessivo a se stesso e a chi gli sta vicino.
In tutti i casi, secondo gli esperti, sembra esista però una certa ritrosia a celare tutta la verità al malato terminale. Ma anche in tal caso, occorre fare molti distinguo.
Una tendenza diffusa, secondo alcuni medici, è quella di sottacere al malato alcune specifiche medicine somministrate, nonché particolari cure ritenute indispensabili e fondamentali per il ristabilimento e il recupero della salute.
A riguardo dell’opportunità di manifestare lo stato della malattia, tra i medici sembra prevalere l’idea che è preferibile comunicare la verità al malato terminale, pur adottando ogni cautela, piuttosto che fornirgli un’informazione manipolata o non veritiera, salvo che l’interessato dichiari apertamente che preferisce non sapere.
Ma qui preme rimarcare anche l’importante aspetto umano nel rapporto tra familiari e malato terminale che, se colto nella sua essenza, può rivelarsi fonte di ricchezza, etica e spirituale, per entrambi.
Sempre secondo gli esperti, è di grande aiuto e conforto per il malato sentire la vicinanza dei familiari, con parole di incoraggiamento che riescono a trasmettere forza e fiducia necessaria per affrontare la malattia stessa.
Va detto che la difficile condizione del dolore può diventare anche occasione di riflessione di come porsi di fronte all’essenza fragile della nostra natura umana.
Non è poi trascurabile il fatto che senza un credo, senza una fede religiosa, secondo i più, la malattia rischia di divenire oppressione e depressione infinita.
A questo riguardo, il famoso filosofo e teologo danese Sören Aabye Kierkegaard (1813-1855) afferma che «l’unico modo valido per combattere l’angoscia e la disperazione è la fede, … il riconoscimento della dipendenza da Dio». Kierkegaard completa il suo positivo pensiero affermando, cristianamente, che «la morte è un passaggio alla vita e pertanto nessuna malattia fisica è mortale». In pratica, fa capire che occorre educare le persone all’accettazione della morte, non come una sconfitta o una perdita fatale ma come evento di altissimo significato da vivere con dignità, nella prospettiva di una vita futura.
Da ultimo, con riferimento agli infermi in senso generale, il Papa Benedetto XVI ha lanciato un severo monito: «una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la compassione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana».
Verità e paternità delle notizie
Il tema della «verità e paternità delle notizie» si può concettualmente ricondurre al celebre detto medievale relata refero – riferisco cose riferite (da altri) che, a sua volta, è l’adattamento di un topos della letteratura greco-latina.
Gli storici greci (Erodoto, Eraclito, Polibio) e latini (Publilio Syro, Seneca, Cicerone), per raccontare fatti conosciuti direttamente o appresi da altri, usano similari espressioni in un duplice significato, rispettivamente per indicare: che le cose conosciute personalmente vengono da loro riportate puntualmente con lealtà e senso di correttezza, che le cose udite vengono riportate come riferite da altri, quasi per mettere in guardia il lettore sulla non sicurissima affidabilità di quanto vanno a riferire.
Nel secondo significato, a riguardo della verità e paternità delle notizie, lo storico greco Erodoto (ca. 484 – 425 a. C.) enuncia i suoi doveri di storico in questo modo: «ho l’obbligo di dire ciò che vien detto ma non ho l’obbligo di crederci». Ed ancora, sempre nel secondo significato, il detto proverbiale medievale: non creditur referenti, nisi constat de relato – non si crede a chi riferisce cose per sentito dire se non consta ciò che viene riferito è un richiamo alla cautela e quindi fa capire che è bene attribuire scarsa considerazione e valenza al «sentito dire».
Ancora oggi, il relata refero è assunto in un duplice significato:
- nel primo, si tende a confermare la pregevole dote di riferire fedelmente, «per filo e per segno», le cose viste o sentite di persona, non tralasciando una riga (filo) o una parola (segno);
- nel secondo, si tende a far intuire che quanto riferito non è stato visto o udito personalmente ma visto o udito da altri, quindi ci si limita a ripetere quanto riferito da terzi, senza aggiungervi nulla e senza assumere responsabilità sulla verità o sull’esattezza.
Nel linguaggio corrente, in contesti politici e diplomatici, il detto latino relata refero è in uso per lo più nella seconda accezione per significare: ripeto cose a me narrate, riferisco ciò che mi è stato riferito, riferisco cose che mi hanno detto (per cui non garantisco).
L’uso del relata refero postula un minimo di ponderatezza perché è pur sempre un modo ambiguo per evidenziare l’estraneità di chi sta parlando, rispetto a ciò che sta proferendo, che si limita semplicemente a riferire quanto detto o sentito da altri.
In genere si usa per rivelazioni delicate, insinuazioni o notizie non ufficiali, riportate da parte di chi non può garantire l’autenticità dei fatti, in quanto la fonte della notizia non è personale.
Giova tenere presente che fare riferimento a cose riferite da altri, limitarsi a ripetere parole o opinioni altrui, è un metodo comportamentale che, molto spesso, si presta ad un utilizzo per fini ipocriti. Infatti, il riportare parole o opinioni altrui corrisponde a: «questo è quanto ho sentito e me ne lavo le mani».
Al riguardo, occorre fare appello all’etica, al senso di correttezza e onestà personale, in quanto il relata refero, oltre ad essere un sistema per evitare di assumersi responsabilità sulla verità o sull’esattezza delle cose riferite, può anche divenire un modo subdolo per attribuire ad altri la paternità di certe maliziose notizie o di velenosi pettegolezzi.
Verità nel rapporto di coppia
Nell’ideale rapporto di coppia, oltre ad assumere particolare rilevanza la complicità psicologica e fisica tra i partners, è fondamentale che ciascuno si sforzi in tutti i modi per creare:
- una relazione fondata sulla verità e sulla schiettezza, evitando di celare le proprie insoddisfazioni per timore di generare dissidi e conflitti;
- un rapporto di fiducia reciproca, in cui le varie questioni, anche le più scabrose, vengono affrontate in modo diretto e onesto, con mente aperta e cuore ben disposto;
- un rapporto amorevole, non un campo di battaglia, imperniato sul rispetto dei rispettivi ruoli.
L’ideale rapporto di coppia si fonda poi sull’impegno reciproco di trovare il modo di limare le asperità del proprio carattere e sulla capacità di amalgamarsi con il carattere dell’altro, senza però mai deflettere dai valori a priori condivisi.
In via preliminare, giova tenere presente che i caratteri distintivi dei partners appartengono a mondi diversi e sono pressoché inconciliabili, per cui ben difficilmente si potranno risolvere tutte le differenze, i contrasti e le divergenze all’interno della coppia. Di conseguenza, ognuno dovrà imparare a relativizzare le discordanze ed a convivere con le realtà dell’altro.
Le principali cause di contrasto, divergenze di opinioni, vedute o idee, destinate a costituire motivo di incomprensione e insoddisfazione nella coppia, riguardano solitamente: le forme di comunicazione insincere; le decisioni sulle questioni fondamentali; la gestione del denaro; la relazione con la fede religiosa; la sfera dell’intimità sessuale; il modo di educare i figli; l’ambito delle relazioni sociali; l’utilizzo del tempo libero e il divertimento; i rapporti con i parenti; la distribuzione dei compiti domestici.
Una particolare attenzione va poi riservata alla crescente difficoltà di conciliare lavoro e famiglia, questione che se non è accuratamente vagliata e studiata può essere causa – per entrambi – di insoddisfazione, di diminuzione del rendimento lavorativo, di assenteismo, di bassa produttività, di rottura del rapporto di coppia.
In linea pratica, i moderni rapporti di coppia rimangono lontani dall’insieme delle idealità indicate più sopra in quanto, nella visione della psicologia, si basano su un implicito compromesso sociale che, salvo qualche rara eccezione, contiene in sé l’incipit di sincerità apparente, che porta inconsciamente ad eludere la sincerità vera.
La sincerità apparente, strettamente connessa all’insincerità con se stessi, si manifesta dapprima in silenzi più o meno significativi, poi si affianca a reticenze ed a piccole menzogne.
A sua volta, la mancanza o carenza di sincerità con se stesso, oltre che con il partner, sempre secondo la psicologia, è causa di inquietudine e infelicità perché, fondamentalmente, tutti hanno paura della sincerità.
Tuttavia, per il proprio bene e per recuperare l’equilibrio interiore, ognuno deve quotidianamente sforzarsi di trovare l’armonia, prioritariamente con se stesso, poi con il partner.
Il fermo perseguimento di tale rigoroso impegno personale costituisce il presupposto per un sereno e felice rapporto di coppia, a cui dovrà conseguire la rimozione dei segreti, il palesamento dei propri lati oscuri e misteriosi, l’impostazione di un modello di vita basato sulla verità, sulla trasparenza, schiettezza e sincerità.
In breve, la condizione indispensabile per creare forme di armonia tra i partners e per stabilire un buon rapporto di coppia, è il fermo impegno dell’uomo e della donna di dire la verità, secondo la solenne formula «tutta la verità, nient’altro che la verità», di non omettere alcunché di verità, di non nascondere aspetti di verità, di sforzarsi di essere sinceri, costi quel che costi, assumendosi la responsabilità di propri errori.
Stante il dovere morale di verità e di sincerità nei rapporti di coppia, per traslato si può senz’altro parlare di parresia, intendendosi per tale la piena rispondenza alla verità interiore, l’autenticità, la genuinità e veridicità dei sentimenti, la franchezza e schiettezza nel parlare, proprietà che rievocano quelle dell’agorà dell’antica Grecia.
L’impegno morale di verità, se mantenuto, assicura un duraturo rapporto di coppia ma, ahinoi, non è certo facile per entrambi mostrarsi costantemente saldi nel medesimo perché presuppone un mixtum compositum di virtù etiche e dianoetiche, quali trasparenza, schiettezza, sincerità, di non facile padronanza.
Sulle tematiche dell’amore, sulle criticità del rapporto di coppia, gli scrittori di ogni epoca hanno versato fiumi di inchiostro, lasciandoci pungenti aforismi, folgoranti citazioni, brillanti battute, che celano tutte grandi verità; eccone qualcuna – tra le più significative – in consonanza con il nostro argomento:
- le donne sono fatte per essere amate, non per essere comprese (Oscar Wilde);
- l’amore è un castigo; siamo puniti per non aver avuto la forza di restare soli (Marguerite Duras)
- l’amore è un fuoco nascosto, una piaga gradevole, un veleno saporito, una amarezza dolce, un dolore dilettevole, un tormento allegro, una ferita dolce, una morte blanda (Fernando de Rojas)
- l’amore è un concetto estensibile che va dal cielo all’inferno, riunisce in sé il bene e il male, il sublime e l’infinito (Carl Gustav Jung)
- l’amore consiste nell’essere cretini insieme (Paul Valéry)
- l’amore è la saggezza del folle e la follia del saggio (Samuel Johnson)
- tutte le passioni ci fanno commettere errori, ma l’amore ci induce a fare i più ridicoli (François de La Rochefoucauld)
- se avete paura della solitudine non sposatevi (Anton Cechov)
- se i coniugi non vivessero insieme i buoni matrimoni sarebbero più frequenti (Friedrich Nietzsche)
- l’amore è lo stato in cui l’uomo vede le cose diverse da come sono (Friedrich Nietzsche)
- prima del matrimonio tenete gli occhi aperti; dopo chiudetene uno (Benjamin Franklin)
- il matrimonio è la tomba dell’amore e la donna la croce che vi campeggia (Moritz Gottlieb Saphir)
- il matrimonio è quell’istituzione che permette a due persone di affrontare insieme difficoltà che non avrebbero mai avuto se non si fossero sposate (anonimo)
- per andare d’accordo con una donna il segreto è uno solo: riconoscere di avere sempre torto (Achille Campanile)
- giurammo di amarci tutta la vita e fummo ineffabilmente felici fino al 24 maggio 1924, poi ci sposammo! (Fabio Bortolotti).
Sulle tematiche di cui sopra, tutte in consonanza con il nostro argomento, si fonda anche l’aneddoto che ci apprestiamo a riportare. L’episodio si svolge presso l’abitazione di un anziano signore, a cui un corriere di nazionalità non italiana recapita un pacchettino e richiede la consueta firma per ricevuta.
- corriere: (stupito) tu bella firma, come mio grande capo;
- signore: anch’io una volta ero grande capo;
- corriere: (incuriosito) e dopo tu che fatto;
- signore: dopo mi sono sposato;
- corriere: (dapprima ammutolisce, poi ride a crepapelle), oh povero, povero me!, domani mattina io sposato.
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Per un ideale e durevole rapporto di coppia non è sufficiente la parresia, né sono sufficienti le ulteriori virtù citate più sopra, ma sono essenziali altre doti, come benignità, graziosità, amabilità, tenerezza, dolcezza, finezza, intelligenza, poesia, doti che, per loro natura, sono tutte innegabilmente al femminile, intraducibili al maschile.
Ciò significa in concreto che la donna, per sua originaria grazia, nasce decisamente favorita rispetto all’uomo il quale, nella sua sventurata cagione di «diversamente pari», deve fatalmente rassegnarsi a subire le infauste conseguenze del suo congenito difetto di doti e della consequenziale ridotta capacità di interagire nel rapporto di coppia.
Da notare che la scienza dell’intero mondo occidentale, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ha riconosciuto come patrimonio genetico di sommo pregio le citate doti femminili e, di contro, ha affermato senza tema di smentita il congenito difetto di doti maschili.
Tale portentosa scoperta scientifica ha originato un nuovo rivoluzionario modello di vita e un nuovo sconvolgente rapporto di coppia nel mondo occidentale in cui, rovesciando le sorti della partita, Valentina diviene il vero dominus matrimonii e Valentino subisce una inevitabile deminutio capitis.
Nella nuova situazione venutasi a determinare, a poco o nulla rimediano gli attributi etici e dianoetici di Valentino, costretto non solo a cedere le armi ma anche ad avviarsi, silente, a scontare l’espiazione della sua colpa originale, dovuta al congenito difetto di doti.
Il gap genetico, di cui si è detto poc’anzi, è motivo di non poca preoccupazione ai fini di un duraturo rapporto di coppia perché, sul piano fattuale, ingenera una «privativa matrimoniale» di Valentina e uno squilibrio delle funzioni psicofisiche di Valentino, a meno che il medesimo non opti per una vita ascetica e di rinunce.
Nel fervido immaginario femminile, tale gap genetico costituisce la genesi della stupidità maschile, nota caratteristica distintiva di chi è piuttosto tardo nel capire.
L’illuminato poeta francese Paul-Jean Toulet (1867-1920), avendo avvertito l’approssimarsi nel mondo occidentale di una lunga epoca di «privativa matrimoniale femminile», con grande intuizione, ha coniato il caustico aforisma:
«le donne sanno bene che gli uomini non sono così stupidi come si crede, ma molto di più».
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Anche a voler prescindere da detto gap genetico maschile, resta il fatto che le predominanti e imprescindibili combinazioni di virtù etiche, quali verità, trasparenza, schiettezza, sincerità, autenticità, genuinità e veridicità dei sentimenti, tutte idealmente volte a creare piena sintonia di cuori, si profilano come mere concezioni idealistiche o utopistiche che, per debolezza umana od altro, possono difettare sia in Valentina che in Valentino. La stessa natura umana sembra in qualche modo poco sensibile o poco incline ad accogliere tali virtù etiche, per cui resta assodato che le stesse, sul piano fattuale, trovano scarso riscontro sia in Valentina che in Valentino.
Ma allora, stante la citata «privativa matrimoniale» di Valentina, lo stato di «diversamente pari» di Valentino, dovuto allo squilibrio delle sue funzioni psicofisiche, e il difetto in entrambi delle citate virtù etiche, viene spontaneo chiedersi su cosa si regge sostanzialmente il misterioso mondo di coppia?
È presto detto, in forza del riconosciuto patrimonio genetico femminile di sommo pregio, si regge unicamente grazie al cuore grande e alle eccelse qualità e doti naturali di Valentina (benignità, graziosità, amabilità, tenerezza, dolcezza, finezza, intelligenza, poesia), alla sua forte naturale propensione verso l’arte dell’amore, qualità e doti che lei sa usare con grande maestria e autorevolezza, anche in assenza di cognizioni ontologiche e metafisiche.
Mettendo a frutto queste eccelse doti e qualità naturali, Valentina se ne guarda bene dal far pesare la sua «privativa matrimoniale» e manifesta formalmente una spassionata comprensione e magnanimità, come meglio chiarito più sotto, verso il suo Valentino, che è destinato a rimanere un eterno sentimentale.
In pratica, l’arcano segreto su cui si regge il rapporto di coppia sta proprio nel sapiente uso da parte di Valentina delle citate doti e qualità eccelse di cui per natura è dotata, nell’instaurare un intrigante rapporto con il suo amato Valentino, valendosi di una perizia senza uguali, attraverso cui sa ammansirlo e piegarlo ai propri voleri ma, nel contempo, sa mandarlo interamente in gloria fino a farlo sentire un «principe».
E così – senza avvedersene – Valentino si sottomette al maritale capistrum – giogo maritale e, giorno dopo giorno, soggiace silente ai doveri del ménage familiare, senza mai rinunciare però ad un propizio diritto d’opzione che Valentina, con cuore magnanimo, non tarda ad offrirli fra tre inconfutabili «regole auree»:
- la prima, di vecchia tradizione, si fonda su un amorevole quanto misterioso accordo, in base al quale le decisioni importanti spettano a Valentino, fermo restando però che per Valentina non esistono decisioni importanti;
- la seconda, di moderna concezione, si fonda sul principio democratico della parità assoluta tra i due, fermo restando però che «la mattina comanda Valentina, la sera ubbidisce Valentino»;
- la terza, avveniristica, si fonda sul principio democratico che Valentino è libero di fare e agire come meglio crede, fermo restando però che non può discostarsi da quello che dice Valentina.
Dopo un primo periodo di acclimatazione nel regime di tali «regole auree», pur incombendo la «privativa matrimoniale» di Valentina e il gap genetico di Valentino, si viene a consolidare e stabilizzare una misteriosa vita di coppia, plasmandosi nei taciti cuori sublimi e travolgenti sentimenti d’amore.
I due, accecati dalla passione d’amore, non badano a sottigliezze del genere testé descritto, benchè non possa sfuggire un’impercettibile differenza nei tratti distintivi e nei diversi modi di vivere la relazione di coppia: Valentina, godendo di un originario patrimonio genetico di sommo pregio, vede con gli occhi della mente, mentre Valentino, scontando un originario gap congenito, vede con gli occhi del cuore.
Ma per buona sorte di entrambi l’amore è cieco, non fa vedere e capire alcunché, perciò Valentino e Valentina potranno vivere felici e contenti finché morte non li separi.
La produzione poetica di tutti i tempi, come ben sappiamo, è copiosa sul più bel sentimento che si possa provare, qual è l’amore, sulla capacità di provare emozioni e sentimenti d’amore, sulle segrete cose d’amore e sull’oscuro fascino dell’amore. Tra i numerosissimi componimenti, sembra pregna di significato e in piena sintonia con il nostro assunto la splendida asserzione dello scrittore e saggista francese Honorè De Balzac (1799-1850):
«l’amore è la poesia dei sensi»
(Honorè De Balzac)
Il plurale «sensi», usato da De Balzac, sembra riferito alla «sensualità», quale condizione oggettiva e soggettiva di esaltazione e sollecitazione dei sensi, di piaceri dei sensi, ed altresì quale rivelazione di sensibilità e armonia estetica. Tale sublimazione dell’amore, secondo lo scrittore irlandese Oscar Wilde, è il massimo cui si possa aspirare e desiderare: «amare ed essere amati regala tale calore e ricchezza alla vita che nient’altro può portare» (Oscar Wilde).
In successione di immagine – o incipit di altra – l’amore, come la vita, è anche un grande mistero, come ci ricorda lo scrittore irlandese Oscar Wilde (1854-1900): «il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte». In quanto tale, l’amore supera la misura della ragione umana, rimane precluso alle possibilità conoscitive dell’intelletto umano e, nel contempo, provoca un’inconscia sensazione di timore, spesso non priva di fascino.
La cieca passione d’amore e lo stato d’animo che l’accompagna è dunque uno stupefacente mistero, al punto di trasformare inconsciamente in pregi i peggiori difetti della persona amata, fin quando, se mai accada, non si abbia modo di prendere atto della realtà.
Del resto, si sa che l’affetto intenso e fortemente radicato che si prova per la persona amata non ha una motivazione logica, una causa razionale che ne consenta la piena comprensione, per questo il «sublime amore» è un grande mistero, a fortiori se consideriamo che amare:
- non è un mezzo di soddisfazione personale, di gratificazione emotiva, ma è volere la soddisfazione e il bene dell’altro;
- non è un modo per fare felici se stessi ma per rendere felice l’altro;
- non è una «partita doppia», ma implica un dare in continuazione, anche senza avere.
Ne deriva che il «sublime amore» non può che essere del tutto spassionato e tale da implicare una totale dedizione all’altro, cieca filantropia verso l’altro, desiderio di rendere felice l’altro, proteso ad assecondare le necessità, le speranze e i sogni dell’altro, senza nulla aspettarsi in cambio.
A riguardo del «sublime amore», il grande poeta cileno Pablo Neruda, vincitore del Premio Nobel 1971 (1904-1973), ci ha lasciato il bellissimo aforisma:
«solo chi ama senza speranza conosce il vero amore».
Ed ancora, l’irrefrenabile sentimento d’amore è tale da travalicare l’equilibrio razionale, al punto che, senza avvedersene, la maggior parte delle cose che l’uomo fa nella vita, anche se adduce a pretesto altre ragioni, le fa a causa della sua amata, specie quelle più irragionevoli; se questo non è mistero …!
Secondo gli scienziati e gli studiosi, sono un mistero anche le singole componenti che concorrono a formare il sublime sentimento dell’amore, quali sinteticamente:
- la componente biologica, che coinvolge – fin dal primo sguardo – la parte eminentemente istintiva della persona;
- la componente affettiva, che compare – successivamente – quando la persona scopre intensi impulsi emotivi e affettivi;
- la componente individuale, che coinvolge la volontà, la libertà e l’intelligenza della persona e sovrasta non solo l’affetto ma anche il desiderio sessuale;
- la componente trascendente, che è imponderabile, svincolata dalla realtà oggettiva, e si pone al di fuori e al di sopra di essa.
Trattasi di componenti in balia di estemporanee apprensioni ed emozioni, quindi estremamente fragili e non immuni da difetti, rese vulnerabili anche per effetto di ingannevoli idealizzazioni, false aspettative, contraffatte donazioni reciproche, situazioni di astio, fine dell’incanto, etc.
Gli esperti suggeriscono qualche accorgimento per tentare di prevenire simili fragilità e debolezze, frequenti nel rapporto di coppia, come ad es.:
- impegnarsi a rispettare la persona dell’altro;
- impegnarsi ad essere sempre sinceri e trasparenti;
- impegnarsi a convivere nella differenza di genere;
- impegnarsi a sostenersi e stimarsi reciprocamente;
- impegnarsi a comprendersi, decifrando gli sguardi e i silenzi, per ridere e piangere insieme;
- impegnarsi a costruire un solido legame, consolidandolo nel tempo;
- dare prova di capacità di ascolto, a cui deve fare seguito un dialogo arricchente;
- in caso di diversità di idee od opinioni su di un dato argomento, sforzarsi di capire le ragioni dell’altro;
- in caso di offesa, torto o ingiustizia subita, una volta chiarita la situazione, saper perdonare;
- vivere l’amore come un mistero, da prendere come tale, senza illudersi di capirlo fino in fondo, appunto perché è un mistero.
Invero, in una più ampia visione, agli occhi dei comuni mortali tutto si presenta come mistero, non solo la natura umana, la vita, l’amore, ma l’intero universo si appalesa come mistero.
E non finisce qui perché l’uomo non può sottrarsi ad altro sorprendente e sconvolgente mistero, alla percezione del quale ne rimane letteralmente sconvolto e però, stranamente, dallo stesso non desidera affrancarsi. Questo ulteriore mistero è indiscutibilmente il più inquietante per l’uomo e consiste nello scoprire che
«il cuore della donna è un mistero»
inconoscibile, impenetrabile, imprevedibile
L’intero mondo femminile, da sempre considerato enigmatico e gravido di incognite, ha tormentato – ma anche ispirato – le menti dei più grandi studiosi e scrittori della storia, che hanno versato fiumi di inchiostro nel vano tentativo di decifrare gli innumerevoli volti della donna e di comprenderne i vari aspetti sentimentali.
Tra tutti, fa spicco lo scrittore irlandese Oscar Wilde (1854-1900), i cui arguti motti e salaci aforismi esprimono con chiarezza ed evidenza ciò che vogliono far intendere. Ci si limita a citarne qualcuno di tali aforismi di Wilde sull’inesplicabile mondo femminile che, pur in chiave satirica, suscita comunque curiosità e particolare fascino:
- le donne sono fatte per essere amate, non per essere comprese;
- non bisogna mai cercare di capire una donna;
- fra uomo e donna vi può essere passione, ostilità, adorazione, amore, ma non può esserci amicizia;
- la forza delle donne deriva da qualcosa che la psicologia non può spiegare.
Indipendentemente da tutto ciò, nella multiforme cultura occidentale, pretendere che il complesso mondo femminile si capisca con quello maschile, e viceversa, è oggi un’impresa ardua, se non impossibile, al punto che uomini e donne sembra provengano da due differenti pianeti.
È comunque indispensabile un continuo sforzo in tal senso, un incessante tentativo di scoprire i lati oscuri del proprio partner, perché la mancanza o carenza di comunicazione e di relazione tra i due è motivo di aggravamento dell’incomprensione e dell’incomunicabilità, con conseguente incapacità di fronteggiare le dinamiche conflittuali.
È ben vero che spesso la donna tende a non aprirsi all’uomo, che non dice quello che dovrebbe dire, ma è altrettanto vero che l’uomo si adopera poco per instaurare un proficuo dialogo, per tentare di tenere unite le due entità separate, che non mette il necessario impegno, coraggio e costanza nella relazione di coppia.
A prescindere da queste comuni carenze di coppia, viene spontaneo chiedersi quale potrà mai essere la causa di fondo per cui detti mondi non si capiscono, sarà perché sono proprio diversi o perché con i nostri comportamenti abbiamo contribuito a renderli diversi?
L’interrogativo è insolubile, benchè la risposta più plausibile non possa che essere la seconda, quantomeno nel sistema di vita occidentale, come si evince anche dalle argomentazioni sopra riportate.
Se nel mondo occidentale la relazione di coppia «scoppia» è indubbiamente dovuto anche ad altre ragioni, connesse per lo più alle recenti evoluzioni storiche, economiche, culturali e sociali (aggravate dai fenomeni del femminismo, gender, Lgbt, etc.) ma anche al fatto che l’uomo, nell’immaginario femminile, non si pone più come l’elemento forte della coppia ma è divenuto l’elemento complementare.
Per preconizzare in tono burlesco l’inaudito epilogo dei moderni rapporti di coppia, si potrebbe prendere a prestito il motivo della canzonetta di Gianni Morandi degli anni ’80, «uno su mille ce la fa …», il cui seguito potrebbe essere il seguente: «nove su mille anticipano le pene e le angosce del purgatorio, mentre i rimanenti novecento novanta anticipano i patimenti e i tormenti dell’inferno» (1 + 9 + 990 = 1.000).
Dobbiamo peraltro mettere in conto che le coppie perfette non esistono, semplicemente perché non esistono persone perfette a comporle. Ogni aspettativa di perfezione dei singoli non può che essere irrealistica, per cui ognuno deve avere il coraggio di ammettere che se il rapporto di coppia non è perfetto è perché ne fa parte lui stesso, assodato che l’imperfezione ha inizio da se stessi.
Consci della reciproca imperfezione, dei propri limiti e delle proprie fragilità, nei piccoli e grandi problemi di coesistenza i singoli, attraverso il dialogo, devono imparare ad affrontarli in maniera costruttiva, sforzandosi per trovare punti di convergenza.
Dobbiamo principalmente mettere in conto, in via pregiudiziale, che l’immaginario femminile e maschile sono mondi diversi, pressoché inconciliabili, come meglio chiarito più sopra, e quindi ai singoli non resta che sopportare con serenità ciò che non possono cambiare, ma questo non vuol dire che non debbano impegnarsi per cambiare ciò che possono cambiare.
Insomma, i singoli dovranno prendere atto delle diversità, dei difetti, delle imperfezioni e delle mancanze reciproche, sforzarsi per comprendere l’altro e impegnarsi in una correzione amorevole, correttamente ordinata con serenità e rispetto l’uno dell’altro.
Malgrado tutte le difficoltà sopra accennate, è comunque molto forte l’attrattiva per la formazione di un’unione stabile, a cui pochi riescono a resistere, è la stessa natura umana che prepotentemente lo implica, è una naturale e insopprimibile attrazione che impone l’unione uomo-donna, talmente intensa che non fa temere le conseguenze dell’agire: «quel che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male» (Friedrich Wilhelm Nietzsche).
È insomma innegabile la fatale attrazione reciproca:
- dell’uomo verso «il mistero donna», il sogno di trovare l’altra «metà» per stabilire un naturale legame umano, per fissare un forte vincolo affettivo, per sentire nel profondo del cuore che non è solo;
- della donna verso il «diversamente pari» uomo, dominata dal desiderio di trovare l’altra metà per un naturale completamento.
Non a caso, riferendosi alla naturale inclinazione per un vincolo affettivo dimostrata dal genere umano, il noto statista Alcide De Gasperi (1881-1954), come riferito dalla figlia Maria Romana (intervista a l’Adige dell’11 dicembre 2007), ebbe acutamente ad osservare: «lo sappia o non lo sappia, se ne accorga o non se ne accorga, l’uomo ha bisogno di amore».
Magna est vis humanitatis
Grande è la forza dell’umanità (Cicerone, Pro Roscio, XXII, 63). L’adagio ciceroniano pone l’accento sull’alto concetto della benevolenza umana, parallelo all’ulteriore: non nobis solum nati sumus – non siamo nati soltanto per noi (Cicerone, De officiis, I, 7, 22), che si traduce in un’esaltazione dell’aiuto reciproco tra gli uomini e nell’amore per il prossimo.
Secondo l’ideale ciceroniano, gli uomini devono distinguersi per alcune qualità, tra cui la giustizia, l’altruismo, la beneficenza, la buona disposizione d’animo verso il prossimo, la liberalità di chi ha i mezzi o di chi occupa una posizione sociale elevata.
Il pensiero ciceroniano, in nuce, esprime l’idea generale della letteratura e della filosofia latina che, come ben sappiamo, si sono adoperate in mille modi per individuare un ideale di vita e per suggerire un indirizzo etico intriso di valori umani e morali, senza peraltro mai pervenire ad un modello condiviso da tutti.
Sul punto, fa spicco un famoso frammento del poeta latino Giovenale (ca. 55-127 d. C.), costituente una chiara esorta a praticare la virtù come prioritario indirizzo etico: monstro quod ipse tibi possis dare: semita certe tranquillae per virtutem patet unica vitae – ti indico quello che puoi darti da te: l’unico sentiero della vita tranquilla di certo passa per la virtù (Giovenale, Satire, X, 363-364), ad indicare che l’unica via che porta a una vita tranquilla è quella che passa attraverso la virtù.
In tema, nella prospettiva della cristianità, San Paolo esorta a seguire «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode» (Lettera ai Filippesi, IV, 8).
Gli uomini, in particolare quelli di cultura o con responsabilità di governo, fin dall’antichità hanno capito l’esigenza, per il bene di tutti, di assumere una condotta di vita esemplare, sia privata che pubblica, ma l’evoluzione umana e il cambiare dei tempi, anziché favorire tale idealità, hanno reso sempre più arduo e difficile simile alto intento.
Oggi, in particolar modo nelle sedi di potere e nelle classi sociali elevate, si notano sempre meno condotte caratterizzate da etica individuale, collettiva e pubblica, da buona disposizione verso il prossimo e da benevolenza umana e sembra che, spesso, abbia il sopravvento la disumanità, l’eccessivo attaccamento ai beni materiali, l’egoismo e l’avarizia, per non parlare delle nuove concezioni filosofico-politiche dell’utilitarismo, che fanno rima con materialismo, edonismo, ateismo e altri «ismi» che affliggono la nostra epoca.
Gli antropologi e gli studiosi dei fenomeni umani e sociali, nel sottolineare l’importanza dei sentimenti di umanità, rammentano che è sbagliato pensare solo agli interessi immediati, preoccuparsi solo di accumulare ricchezza, a detrimento o addirittura ignorando i valori e i beni dello spirito, perché in questo modo si corre il rischio di perdere la capacità di ispirazione, di provare emozioni e sentimenti elevati e, quindi, di non cogliere appieno il senso di umanità.
A riguardo dell’irrefrenabile smania di ricchezza, a detrimento di quell’humanitas che coinvolge i valori e i beni dello spirito, è di viva attualità il monito oraziano: scilicet improbae crescunt divitiae; tamen curtae nescio quod semper abest rei – certo cresce la ricchezza disonesta; ma sembra sempre scarso il patrimonio e privo di qualcosa (Orazio, Odi, III, 24, 63, 65).
È noto come l’assenza o la carenza di sentimenti di umanità, che comprendono sensi di solidarietà, di benevolenza, di comprensione e di indulgenza verso le altre persone, finisca per inaridire e impoverire l’esistenza dell’essere umano, sia spiritualmente che materialmente, facendolo divenire prigioniero dei desideri e delle delusioni.
In pratica, se la vita delle persone prescinde dalla sfera dello spirito e non si fonda sui valori e qualità proprie dell’umanità, quali solidarietà umana, benignità, magnanimità e altruismo, finiranno per prendere il sopravvento i sentimenti contrari di disumanità, insensibilità, freddezza, cattiveria, malvagità, crudeltà, spietatezza, brutalità e violenza.
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Senza alcuna pretesa di perfezione e di esaustività, in via del tutto sommaria, si tenta di abbozzare qualche forma di buona disposizione d’animo verso gli altri, di tracciare un quadro approssimativo delle prerogative dell’essere umano, del complesso dei sentimenti e dei valori umani, frammisti a valori morali, cui dovremmo ispirarci nella vita.
Si tratta di sentimenti, qualità, valori e doti di carattere generale e quindi comuni sia a coloro che seguono la visione religiosa e idealistica, come anche a coloro che seguono la visione laica:
- rispetto del mondo naturale;
- rispetto della vita e della persona umana;
- rispetto della dignità umana;
- rispetto di sé e degli altri;
- rispetto delle idee altrui;
- rispetto dei valori umani e morali;
- impegno di mantenere un comportamento secondo modelli etico-sociali di onestà, rettitudine, giustizia e moralità;
- impegno di rispetto dell’ordine costituito in tutte le sue forme ed estrinsecazioni;
- impegno di attribuire e riconoscere ad ogni persona ciò che di diritto gli spetta o gli appartiene;
- impegno di preservare e tutelare la famiglia, con il riconoscimento del suo ruolo tradizionale sia sotto il profilo sociale che educativo, e di rispettare la vita in tutte le sue forme ed esplicazioni;
- impegno di parresia nei rapporti personali e di interazione con altri;
- impegno a non invidiare, non odiare, non disprezzare, non deridere, non adirarsi con nessuno;
- impegno di vita etica, sia nella sfera privata che pubblica;
- impegno per l’approfondimento della conoscenza;
- impegno nella continua ricerca della verità;
- impegno ad agire secondo coscienza;
- impegno ad agire con senso di responsabilità e giustizia;
- impegno ad un dialogo aperto tra gli uomini;
- accettazione incondizionata dell’altro;
- senso di correttezza e lealtà;
- senso di solidarietà e fratellanza tra tutti gli uomini;
- senso di comprensione, compassione, tolleranza, cortesia;
- senso di umiltà, che comprende modestia e dolcezza;
- senso di sobrietà, che comprende anche la misura in tutto;
- senso di moderazione, che comprende prudenza, equilibrio e pace interiore;
- senso di altruismo, che porta ad agire a vantaggio degli altri, trascendendo noi stessi;
- apertura verso immigrati, bambini orfani o abbandonati;
- integrità morale, che comprende onestà, rettitudine, lealtà, sincerità;
- trasparenza, ossia chiarezza di comportamenti e di intenti;
- stima e fiducia reciproca, che facilita l’interazione con altri;
- amicizia, che comprende il piacere di stare insieme.
Da ultimo, ma non certo per importanza, vanno evidenziate le altissime qualità di «nobiltà d’animo» e di «grandezza d’animo» che, specie in un mondo artefatto qual è il nostro, sottendono valori di autenticità e moralità.
Se detti valori umani e morali trovassero pratica applicazione nella vita quotidiana si potrebbero creare migliori condizioni di vita, si potrebbe star bene insieme agli altri e l’esistenza umana, pur nella sua precarietà, potrebbe essere più vivibile per tutti.
Ognuno dovrebbe perciò fare uno sforzo in senso etico generale per scindere ciò che è buono da ciò che è cattivo, per sviluppare il senso di giusto e di sbagliato, l’idea del bene e del male, ognuno dovrebbe insomma acquisire forti valori morali a cui ispirarsi nell’agire quotidiano.
In quest’ottica, si può parlare di virtù, quale disposizione dell’animo a fare il bene, come fine a se stesso e non con lo scopo di ottenere un riconoscimento, che postula peraltro una distinzione:
- in senso generale, si sostanzia nella disposizione naturale volta a fuggire il male e fare il bene, sia nella vita privata che in quella pubblica, a prescindere da eventuali premi o castighi;
- in senso specifico, si sostanzia nella buona disposizione d’animo, nelle doti, nelle qualità e nei pregi personali.
Nell’uno e nell’altro senso, sono comuni modi di dire: educare alla virtù, seguire la via della virtù, essere modello o esempio di virtù.
In tema, è di alto prego l’aforisma del grande mistico tedesco Tommaso da Kempis (1380-1471): «quanta virtù ciascuno di noi abbia appare al momento delle avversità: non sono le occasioni che fanno fragile l’uomo ma esse mostrano quale esso è».
Se la vita è vissuta con veri ideali di umanità, nella visione e nello spirito di cui si è detto poc’anzi, ci si potrà sentire anche corazzati contro le inevitabili avversità e difficoltà, contro le contaminazioni da false ideologie e modelli di vita, contro i messaggi pubblicitari di cui siamo ogni giorno di più bombardati dai mezzi di comunicazione di massa.
Tra l’altro, non dobbiamo mai dimenticare che le cattive condotte e azioni di oggi sono destinate a segnare profondamente il domani, ossia a influire negativamente sulle generazioni future.
Per sottolineare l’importanza della virtù, dei valori morali e della verità in particolare, il grande scrittore francese Sébastien-Roch Nicolas (noto come Nicolas de Chamfort, 1741-1794) ha coniato l’aforisma: «il piacere può fondarsi sull’illusione, ma la felicità riposa sulla verità», lasciando intuire che se la vita delle persone prescinde dalla sfera dello spirito e non si fonda sui valori e qualità proprie dell’umanità, quali solidarietà umana, benignità, magnanimità e altruismo, finiranno per prendere il sopravvento i sentimenti contrari di disumanità, insensibilità, freddezza, cattiveria, malvagità, crudeltà, spietatezza, brutalità e violenza, che non danno certo la felicità (in tema di «felicità», cfr. la voce: Maturazione di una coscienza morale ed etica, Capitolo VIII).
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Dopo aver abbozzato sentimenti di umanità, accennando a valori umani e morali, parliamo ora di vizi, che inquinano e avvelenano la vita umana, e ne prendiamo in considerazione uno dei più diffusi tra le persone, l’invidia.
In campo letterario, una bella immagine dell’invidia ci viene offerta dall’emistichio ovidiano: fertilior seges est alienis semper in agris – la messe nei campi altrui è sempre più abbondante (Ovidio, Ars amatoria, I, 349), ad indicare che le cose nostre piacciono agli altri e le cose di altri a noi.
In tema, è anche l’ulteriore emistichio ovidiano: ingenium magni livor detractat homeri – l’invidia disprezza anche i meriti del sommo Omero (Ovidio, Remedia amoris, 365), che fa capire quanta parte abbia l’invidia nei comuni modi di pensare.
L’invidia per le cose degli altri è poi sottolineata dal luogo giovenaliano: ergo paratur altera villa tibi, cum rus non sufficit unum et proferre libet finis maiorque videtur et melior vicina seges – ti comperi dunque un’altra fattoria, perché un podere solo non basta e ti piace allargare i confini, e il seminato del vicino ti sembra più grande e più bello (Giovenale, Satire, XIV, 140 – 144).
Il grande oratore, scrittore e filosofo, Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) considera l’invidia un sentimento devastante, impossibile da arrestare, che «quando infuria in tutta la sua violenza contro di essa risulta impotente il singolo e persino un’intera istituzione», come il Senato romano (De oratore, II, 209).
Lo storico Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) fa notare il carattere distruttivo dell’invidia riferendo del successo riscosso dal console Quinto Fabio Massimo, a cui gli invidiosi non risparmiarono poi la diffamazione (Storia di Roma, XXVIII, 40, 8).
Prima dei classici latini, il sentimento dell’invidia era già stato analizzato da vari filosofi Greci, quali in particolare: Antistene (ca. 444 – 365 a. C.), Aristotele (ca. 384-322 a. C.), Erodoto (ca. 484-425 a.C.), Epicuro (ca. 341-271 a. C.).
In senso generale, l’antico vizio dell’invidia nella letteratura greco-latina è per lo più raffigurato come ignobile sentimento, per cui si prova dispiacere o disgusto dinanzi al bene o alla felicità degli altri.
Lo stato di astiosa disposizione che prova l’animo umano, a causa di un bene o di una qualità che appartiene a un altro e che invece si vorrebbe per sé, è schiettamente evidenziato dalla stupenda terzina dantesca:
Fu il sangue mio d’invidia sì riarso
che se veduto avesse uomo farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso
(Dante Alighieri, Purgatorio, XIV, 82-84)
Di questo antico vizio ne parlano gli studiosi e gli scrittori di tutti i tempi, tra cui fanno spicco le riflessioni di Sant’Agostino (354-430), San Basilio (329-378), Francesco Bacone (1561-1626), Spinoza Baruch (1632-1677), Arthur Schopenhauer (1788-1860), Sören Kierkegaard (1813-1855), Oskar Wilde (1854-1900), Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900).
L’immagine usata dalla classicità e dalla letteratura per raffigurare il sentimento dell’invidia è grosso modo compendiata nel detto popolare: «l’erba del vicino è sempre più verde».
Per la Chiesa cattolica, il vizio dell’invidia è uno dei sette peccati capitali, definito come «tristezza per il bene altrui e percepita come male proprio», si sostanzia nel provare astiosa e maligna disposizione d’animo verso chi possiede qualità, beni o situazioni migliori delle proprie e, in quanto tale, si contrappone direttamente alla virtù della carità.
Le persone che provano un desiderio incoercibile di poter godere dello stesso bene che altri possiedono, che soffrono di invidia e che non sono mai contente della loro situazione non mancano certo ai giorni nostri.
Vari studiosi dei comportamenti umani ritengono che la maligna disposizione di provare invidia sia insita nella natura umana e destinata a non cambiare mai.
Oggi, come ieri, chi ha raggiunto un’importante posizione per merito proprio o per fortuna, chi ha conseguito la gloria e la fama, diventa inevitabilmente oggetto di critica e di invidia. Da qui i detti comuni: «destare invidia, crepare d’invidia; il tarlo dell’invidia, essere roso dall’invidia».
A riguardo di questo inveterato vizio, il filosofo triestino Mario Hrvat (1910-1948) ci ha lasciato un alto insegnamento: «l’invidia è la consapevolezza della propria mediocrità», da cui si intuisce che chi non è invidioso, chi non avverte questa maligna tendenza nel proprio intimo, è una persona dignitosa, che dimostra di possedere elevatezza morale e generosità d’animo.