AB UNO, DISCE OMNES
Da uno capisci come sono tutti (Virgilio, Eneide, II, 65). Sono le parole di Enea che, riferendosi allo spergiuro Sinone (il greco traditore che ha facilitato l’ingresso nelle mura di Troia del fatidico cavallo di legno pieno di armati, fatale avvenimento che segnò la fine della città), perviene a un’accusa generalizzata nei confronti dei Greci.
L’emistichio virgiliano esprime, in effetti, la riprovazione verso tutti indistintamente i Greci, sia per la loro slealtà sia per la loro perfidia: accipe nunc Danaum insidias et crimine ab uno disce omnes ‒ ed ora ascoltate le insidie dei Greci e da un solo loro inganno imparate a conoscere tutti gli altri. Dalla disonestà di un solo individuo, dice l’eroe troiano alla regina Didone, impara a conoscere anche gli altri della stessa specie.
Giova peraltro ricordare che nell’antica Roma era molto diffusa l’opinione della scarsa affidabilità dei Greci. I riferimenti in tal senso sono copiosi nella letteratura latina.
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Il frammento virgiliano ab uno disce omnes si può riprendere, per lo più con fini polemici, per indicare che da un solo esempio o da alcuni particolari si può dedurre come sia la totalità: da uno impara a conoscerli tutti, da uno solo si capisce come sono tutti gli altri, come è uno di loro si presume siano tutti, nel senso che si considerano tutti uguali.
Se tali non fossero le differenze si noterebbero sul piano fattuale, attraverso condotte ed azioni improntate al giusto operare, alla correttezza, al senso di responsabilità, ai valori morali, alla rettitudine, alla giustizia, in breve alla publica honestas.
Alla prova dei fatti, l’intera classe politica non sembra veramente e seriamente orientata al bene comune, perciò oggi si parla di “politica-spettacolo”, intendendo quel genere di politica che nell’opacità del sistema, a danno della credibilità e della trasparenza, privilegia la spettacolarità, servendosi anche dei mezzi di comunicazione di massa.
Le basi di una sana democrazia presuppongono una classe politica che, oltre ad avere un alto senso di moralità e delle pubbliche istituzioni, disponga di alcune qualità indispensabili, quali in particolare: adeguata cultura, onestà concettuale, integrità morale, trasparenza, concretezza, non faziosità, coerenza, obiettività, equilibrio, forza d’animo, capacità di ascolto, spirito civico, senso di responsabilità, impegno personale per la giustizia sociale, sobrietà, capacità di relazione e di partecipazione.
Se i politici, da cui dipendono le sorti e il futuro del Paese, non possiedono tali qualità da essi non possiamo aspettarci niente di buono e il Paese è destinato al deterioramento morale e materiale.
Il giudizio sul possesso delle citate qualità è demandato potenzialmente ai cittadini che lo manifestano nel segreto delle urne, esprimendolo con il voto di preferenza. Cosa dobbiamo pensare dei nostri onorevoli “signori della politica” che, per sottrarsi a simile giudizio dei cittadini, hanno fatto la “maialata” di sopprimere ‒ in toto o in parte ‒ il voto di preferenza? Con tale infamità, hanno firmato la tanto agognata condanna all’ergastolo politico! (cfr. anche le voci: publica honestas; quod omnes tangit debet ab omnibus approbari).
A CAPITE BONA VALETUDO
Dal capo viene la buona salute (Seneca, De clementia, II, 2). L’emistichio senecano fa capire che i responsabili della res publica (ovvero coloro che sono investiti di incarichi istituzionali o che occupano posizioni elevate) sono chiamati a dare il buon esempio.
Gli insegnamenti di storia e di morale sociale comprovano che il buon esempio dei governanti è destinato a riverberarsi sui governati, che vengono trascinati a fare altrettanto.
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La classe politica dei nostri giorni sta vivendo un grande sbandamento ideologico e morale, contrassegnato da perdita di valori e da conflittualità permanente, e in tale situazione di traviamento è pura utopia pensare che possa dare il buon esempio.
La perdita di valori da parte dei “signori della politica” e la loro permanente conflittualità si nota quotidianamente, ad iniziare dal linguaggio fatto di violenza verbale, volgarità, aggressività, offese e insulti, che denotano mancanza di rispetto della persona, maleducazione e violazione delle più elementari regole civili.
Se il buon esempio di detti signori manca già nel linguaggio, non possiamo aspettarcelo nelle azioni e non possiamo certo parlare di valori.
I tradizionali valori morali e visioni di vita oggi sono considerate appartenere a tempi antichi da rottamare. Ai moderni pseudo innovatori è bene ricordare che non è neppure ipotizzabile la vita priva di valori umani e valori morali, perché significherebbe vivere senza essere responsabili, non solo verso gli altri ma anche verso se stessi, in quanto sono i valori che danno senso alla vita e la rendono vivibile nella società.
Dall’insieme dei valori scaturiscono comportamenti positivi che caratterizzano l’essere umano ed inoltre da essi scaturisce la forza di orientare le scelte concrete in modo non arbitrario.
Gli studiosi dei comportamenti umani e sociali affermano che i valori morali riflettono la cultura di una società, quando siano condivisi dagli appartenenti alla medesima, e costituiscono l’insieme delle cose considerate eticamente buone ed idealmente perseguibili.
Per meglio comprendere tale assunto, sembra opportuno chiarire cosa si intende, nel pensiero comune, per valori umani e per valori morali:
– i valori umani sono formati dal complesso degli ideali, delle qualità positive e delle aspirazioni che caratterizzano l’essere umano;
– i valori morali sono formati dal complesso dei principi morali, delle norme e dei costumi di vita, cui dovrebbero conformarsi le azioni umane.
Si possono non condividere determinati valori, si possono criticare determinati valori, ma una evoluta società non può però fare a meno dei valori, anzi deve renderli stabili ed incrollabili, pur nel variare delle culture e nel cambiamento di civiltà indotto dalle trasformazioni sociali e culturali.
Ed a fortiori i valori morali non possono assolutamente venire meno nella conduzione politica perché sarebbe sintomo di involuzione culturale e sociale, che finisce per generare forme di democrazia ibrida e difettosa.
ACCESSIT PATELLAE… DIGNUM OPERCULUM
La pentola trova il suo degno coperchio (San Girolamo, Epistulae, VII, 5). Nella tradizione proverbiale, l’immagine della pentola e del coperchio è presente in vari modi di dire, come ad es.:
– mettere il coperchio sulla pentola, per indicare che si vuole cercare di nascondere qualcosa;
– il diavolo insegna a fare la pentola ma non il coperchio, per indicare che insegna a fare il male ma non a porvi rimedio;
– non vi è pentola sì brutta che non trovi il suo coperchio, per indicare un matrimonio tra due persone di brutto aspetto.
In chiave politica, l’immagine della pentola e del coperchio fa capire che ogni popolo ha i politici che si merita.
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Ai nostri giorni, i politicanti di mestiere trovano spazio per fare il bello e il cattivo tempo, forti del fatto che le masse popolari mancano di adeguata cultura e di quel minimo di organizzazione e preparazione che possa in qualche modo contrastare i loro sporchi interessi.
Fin tanto che i cittadini rimangono nell’ignoranza politica, non si organizzano e non si evolvono politicamente, gli sfrontati professionisti della politica hanno buon gioco nello sfruttare la loro superiorità perché, di fatto, “governano l’ignoranza dei governati”.
E così i birboni “signori della politica” non perdono occasione per approfittare della mancanza di preparazione e di organizzazione delle masse e, addirittura, sono arrivati al punto di sfruttare la credulità popolare per i loro sporchi giochi politici.
In breve, a detti onorevoli signori torna comodo mantenere lo status quo, ovvero mantenere un basso livello formativo delle masse popolari, quale scellerato metodo per soggiogarle e predominare senza difficoltà, per cui poco o nulla fanno per acculturare il volgo.
Va detto che anche la stragrande maggioranza dei media, sotto il profilo ideologico e propagandistico, palesemente o velatamente ha sempre avvalorato le strategie del sistema che ha dissestato il Paese. Ciò si può spiegare in parte col fatto dei finanziamenti pubblici alla stampa ed in parte con le ipocrisie progressiste che predominano negli ambienti intellettuali e politici italiani.
Di questo passo, però, detti onorevoli “signori della politica” hanno perso la stima e la fiducia della maggioranza dei cittadini, tant’è vero che l’affluenza alle urne è ora ridotta a meno del 50% degli aventi diritto e, quindi, per la storia sono già condannati (cfr. anche la voce: publica honestas).
La presente deprimente situazione è destinata a permanere finché gli elettori, nel segreto delle urne, non sapranno esprimere una chiara risposta di disapprovazione nei confronti degli attuali disonorevoli “signori della politica”.
ACTA INTERNA CORPORIS
Atti interni di un corpo, atti interni di un collegio. Formula giuridica per indicare gli atti normativi disciplinanti il funzionamento o l’attività interna di un determinato organo collegiale: legislativo, istituzionale, amministrativo.
In sede parlamentare, i più importanti acta interna corporis sono i regolamenti volti a disciplinare l’organizzazione interna e il funzionamento di ciascuna Camera (art. 64, primo comma, Cost.), regolamenti che per loro stessa natura sono sottratti al sindacato di legittimità della Corte Costituzionale.
In senso generale, si dice di ciò che avviene all’interno di un organo collegiale, delle decisioni destinate ad esplicare efficacia solo all’interno di un organo collegiale, di tutto ciò che regola il funzionamento di un organo collegiale.
In linea di massima, in assenza di specifiche norme legislative, l’organo collegiale è libero di darsi un’autonoma organizzazione per il proprio funzionamento, adottando tutti gli atti interna corporis che reputi opportuni. Tali atti non sono di norma suscettibili di sindacato da parte di soggetti esterni, né sono soggetti a controllo nel merito da parte di organi interni o esterni.
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Ma un conto è l’atto assunto interna corporis altro è la decisione assunta interna corporis che, nel gergo burocratico, è propriamente definita “conchiuso”.
Nel moderno linguaggio politico e burocratico con il termine “conchiuso” si suole indicare una misura preventiva o una decisione prudenziale con cui l’organo collegiale, informalmente, dispone ex ante in ordine a qualcosa che, per ragioni di vario ordine, al momento rimane riservata e quindi non ufficializzata in alcun modo.
Il c. d. “conchiuso” si traduce in una mera verbalizzazione interna di una decisione che l’organo si propone di formalizzare in un prossimo futuro, allorché si maturino le necessarie condizioni. In realtà, il “conchiuso” altro non è che una decisione politica secretata che, spesso, ha lo scopo di gettare le basi per futuri benefici a favore di qualcuno o, per contro, di pregiudicare futuri interessi di qualcuno.
Di tale decisione politica sono a conoscenza solo i componenti l’organo collegiale, i quali si sentono liberi di informare i partiti di appartenenza e ciò è quanto basta per la proficua coltivazione delle loro clientele politiche o per perseguire intenti di partitocrazia.
E così la situazione che viene a determinarsi apre le strade a possibili macchinazioni politiche, alla possibile creazione di condizioni privilegiate o di miglior favore per ristrette cerchie di cittadini, che risulteranno avvantaggiati rispetto alla generalità. Salvo eccezioni, in genere si tratta di politiche clientelari, di metodi clientelari, di favoritismi clientelari, divenuti ormai deplorevoli prassi connaturate nel sistema.
- AD CAPTANDUM VULGUS
Per adescare il volgo. Detto medievale, benché il concetto derivi dalla classicità latina, per indicare ciò che viene detto o fatto con il preciso intendimento di gettare polvere negli occhi agli sprovveduti, di ingannare la gente non sufficientemente accorta.
In campo letterario, a riguardo di lusinghe e promesse ingannevoli, non mancano significative citazioni:
– quasi pulverem ob oculos… adspergebat ‒ gettava la polvere davanti agli occhi (Aulo Gelio, 5, 21, 4), indica chi fa credere cose non vere;
– decipit incautas fistula dulcis aves ‒ la dolce zampogna inganna gli incauti uccelli, mette in guardia da imbonitori e ciarlatani e da coloro che catturano le persone con il loro bel parlare e le traggono in inganno;
– exigua est tribuenda fides qui multa loquuntur ‒ poca fede si deve prestare a chi chiacchiera molto (Catone, Distici, II, 20), invita a non fidarsi di chiacchieroni e ciarlatani.
L’inganno ordito per raggirare gli ingenui con lusinghe o prospettive allettanti, oggi si suole definire “specchio per le allodole”.
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Il detto latino ad captandum vulgus sembra tagliato su misura per gli onorevoli “signori della politica” che studiano i modi migliori per accalappiare gli ingenui, per abbindolare il volgo, per adescare il popolino, allettandolo con lusinghe, promesse od altro.
Detti signori sono professionisti in fatto di lusinghe e promesse ingannevoli e, con reboanti espressioni, non si limitano a darcela ad intendere ma sono arrivati al punto di sfruttare la dabbenaggine della gente comune e di prendersi gioco della stessa.
Con questo perfido mezzo, fondato sulla finzione, l’illusione, la demagogia e l’inganno, mirano a sottomettere a piacimento le masse, con il duplice scopo di:
– offuscare le idee e gli orientamenti politici delle persone, specialmente quelle di basso profilo culturale;
– distogliere l’attenzione delle persone dalla realtà e dall’essenza dei problemi.
In tal modo, gli onorevoli “signori della politica” eludono un loro precipuo dovere, che è quello del parlare chiaramente, seriamente e responsabilmente.
Ulteriore infallibile espediente degli onorevoli “signori della politica” è quello di mantenere le masse nell’ignoranza, per avere facile gioco nella gestione del potere e nell’influenzare l’opinione pubblica: “tanto più elevato è il numero di chi non può comprendere quanto più sicuro è il trionfo dei signori della politica”.
Ciò che conta per detti signori è riuscire a tenere sotto controllo l’opinione pubblica, rendere le masse popolari televisione-dipendenti, distrarre le persone con cose frivole, in modo da allontanarle il più possibile dai veri problemi che assillano il Paese.
Gli onorevoli “signori della politica” partono dall’idea che le masse popolari non vanno acculturate, orientate al vivere civile, ma vanno tenute il più possibile nell’ignoranza perché solo così sono poste in condizione di non nuocere, di non comprendere gli sporchi giochi del potere e l’interesse comune.
In estrema sintesi, l’abietto fine ultimo di detti onorevoli signori è quello di rendere le masse popolari indifferenti e passive, perché solo in questo modo si assicurano una tranquilla prosecuzione sine die nella vacuità politica. Nei loro mal celati intenti, tanto mostruosi quanto dissennati, rendere partecipi le masse popolari significa autolesionismo allo stato puro.
- AD KALENDAS GRAECAS
Alle calende greche. Secondo il racconto dell’erudito e biografo romano Svetonio (De vita Caesarum ‒ Vita di Augusto, 87, 1), l’imperatore Augusto (27 a.C. – 14 d.C.) era solito dire ad Kalendas Graecas soluturos per indicare che un debitore moroso non avrebbe mai pagato il suo debito (secondo altra fonte, Svetonio attribuisce la frase a Giulio Cesare per indicare un pagamento che non intendeva saldare).
Da notare che, in base al calendario romano, le calende erano il primo giorno di ogni mese ma tale denominazione non esisteva nel calendario greco.
Gli storici latini riferiscono che il calendario romano di Numa Pompilio comprendeva 355 giorni, ripartiti su 12 mesi: januarius (29 giorni), februarius (28 giorni), martius (31 giorni), aprilis (29 giorni), maius (31 giorni), iunius (29 giorni), quintilis (31 giorni), sextilis (29 giorni), september (29 giorni), october (31 giorni), november (29 giorni), december (29 giorni).
A seguito delle modifiche apportate all’epoca di Giulio Cesare, a partire dal I gennaio del 45 a.C., il calendario romano venne ad avere 365 giorni, con la previsione di un anno bisestile, prima ogni 3 anni poi dopo 4. Tale nuovo calendario, conosciuto come “calendario giuliano”, fu poi riveduto all’epoca di Augusto ma solo per quanto riguarda il nome di due mesi specifici: il mese quintilis prese il nome iulius (in onore di Giulio Cesare) e il mese sextilis prese il nome di augustus (in onore di Augusto). Il “calendario giuliano” rimase in vigore fino al 1582, quando venne sostituito dal “calendario gregoriano”.
Alcuni giorni del “calendario giuliano” erano contrassegnati da un nome: il I giorno del mese era detto kalendae, il IX giorno era detto nonae, il XIII giorno era detto idus. Da notare poi che il calendario romano contraddistingueva con la lettera “F” i giorni fasti, in cui si amministrava la giustizia nei tribunali, con la lettera “N” i giorni nefasti, in cui era inibito amministrare la giustizia nei tribunali, con la lettera “C” i giorni comitiales, in cui si tenevano i comizi.
Quindi, nel calendario romano le calende, le none e le idi erano, rispettivamente, il primo, il nono e il tredicesimo giorno del mese (da notare però che a marzo, maggio, luglio e ottobre, le none e le idi erano spostate di due giorni).
Nelle kalendae, che cadevano senza eccezioni il primo giorno di ogni mese, i creditori erano soliti chiedere ai debitori di versare gli interessi sul denaro prestato o la restituzione del denaro stesso. Dato però che il calendario greco, diversamente impostato, presentava una diversa scansione temporale rispetto al calendario romano e non contemplava comunque le calende, rimandare un pagamento alle calende greche significava non avere intenzione di regolarlo mai.
L’espressione latina ad kalendas graecas (in it. è loc. avv.) è oggi usata in contesti scherzosi per indicare eufemisticamente il rinvio di qualcosa a un tempo indeterminato, con la reale intenzione di non occuparsene mai.
In senso più ampio, esprime l’idea di qualcosa che non succederà mai o allude a un’epoca che non verrà mai, ad un’operazione rinviata sine die, ad un pagamento o ad un adempimento rinviato, a una data o a un’epoca molto lontana, quanto mai ipotetica, che non verrà mai. Quindi, l’archetipo di rimandare alle calende greche, di pagare alle calende greche, ovvero il rinvio a tempo indeterminato di qualcosa, ha radici molto lontane e non è mai venuto meno nel corso dei secoli.
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Il detto latino ad kalendas graecas si direbbe coniato su misura per gli onorevoli “signori della politica” che si guardano bene dal muovere un dito, dal darsi da fare per realizzare qualcosa, dall’agire per cambiare lo status quo, dal prendere qualche seria iniziativa, dal modificare in qualche modo la stagnante situazione, perché qualsiasi innovazione potrebbe contrastare con qualche bieca demagogia politica oppure potrebbe nuocere sotto il profilo elettoralistico.
Insomma, gli onorevoli “signori della politica” hanno tutto l’interesse a lasciare le cose così come stanno, al quieta non movere, interesse che ovviamente non possono svelare, anzi in via ufficiale fingono di prodigarsi, a parole, nella prospettazione di innovazioni a destra e a manca, con la riserva mentale di mantenere l’attuale stato di immobilità sociale e politica (cfr. anche le voci: cum sapiente loquens perpaucis utere verbis; parturient montes, nascetur ridiculus mus; quot homines, tot sententiae; senatores boni viri, senatus autem mala bestia; turpe est; vanitas vanitatum).
- AD PERNICIEM SOLET AGI SINCERITAS
La sincerità suole recar danno (Fedro, Fabulae, IV, 13, 3). Aforisma tratto da un verso di Fedro ma il concetto è presente anche in altri classici latini: utilius homini nihil est quam recte loqui… sed ad perniciem solet agi sinceritas ‒ non vi è cosa più utile all’uomo che la franchezza nel parlare ma la sincerità suole recar danno.
Nel pensiero della classicità latina, la condotta dell’uomo probo non può che essere quella di aperto vivere voto ‒ vivere a voti scoperti (Orazio, Epistulae, I, 16, 60; Seneca, Epistulae, 10, 4, 5; Persio, 2, 7; Giovenale, Satire, 6, 538-539) e quindi improntare i propri rapporti e comportamenti sulla lealtà e correttezza, in modo da non dover mai arrossire del proprio operato.
Secondo i critici e gli studiosi di etica, la sincerità è la preziosa qualità di una persona che, per animo, per carattere, per indole o per natura, nel parlare e nel confessare qualcosa non sa fingere, è franco e schietto, e si attiene spontaneamente alla verità, vuoi per dovere morale vuoi per scrupolo di coscienza. In genere, la persona sincera è d’animo aperto e leale, è schietta, aliena dal fingere e quindi dal nascondere il proprio pensiero. Nel fare e nel dire, la persona sincera non usa ambiguità, artificio, inganno ma ha naturalezza di carattere ed un contegno spontaneo e genuino.
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La sincerità e la schiettezza sono virtù che scaturiscono dalla morale e dalla coscienza, qualità e doti inconciliabili con il perverso mondo della politica, caratterizzato da falsità, complicazioni, artificiosità e malizie.
Nelle allusioni e nelle forme figurate del linguaggio politico, per esprimere il concetto inverso a quello della schiettezza si usa il termine “machiavellismo”, che indica un modo di agire subdolo e senza scrupoli, spesso caratterizzato da inganno.
Gli odierni “signori della politica” sono veri e propri professionisti non solo nell’uso di tali modi di agire ma anche in ogni genere di intrighi e dissimulazioni, scaltri maestri di ipocrisia e di incoerenza, sia sul piano logico-politico che morale, superando financo il loro maestro Niccolò Machiavelli (cfr. anche la voce: qui nescit dissimulare, nescit regnare).
Una sana e cristallina gestione pubblica presuppone doti di schiettezza e franchezza che, ahinoi, risultano estranee agli odierni “signori della politica”, per i quali “la verità è una sedia scomoda sulla quale pochi sono disposti a sedersi”.
Ai nostri giorni, l’agire politico basato sulla finzione e sulla menzogna, in spregio della verità, è di fatto assurto a prassi, anzi è considerato come un ordinario strumento per l’esercizio del potere.
Solo in presenza di “segreti di Stato” la legge giustifica forme di occultamento della realtà, mentre in casi di rilevanza generale o particolare alla Pubblica amministrazione non è consentito offuscare la realtà dei fatti o delle cose.
In via generale, la Pubblica amministrazione non può discostarsi dai principi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni (cfr. al riguardo D.L. 14 marzo 2013 n. 33), nonché dai principi di imparzialità e buon andamento sanciti dall’art. 97 della Costituzione. In breve, la Pubblica amministrazione non può fare un uso spregiudicato e sistematico della finzione, nel deprecabile tentativo di schermare demagogie politiche o l’esercizio distorto del potere.
Nella gestione della res publica c’è un urgente bisogno di verità effettiva, di verità vera e autentica, a portata di tutti, non di verità offuscate, artefatte, fasulle, né tanto meno di doppie verità o false verità.
A fronte dell’occultamento della realtà effettiva e dello stato di inerzia dei “signori della politica”, alla prima occasione utile, è sufficiente che i cittadini se ne ricordino nel segreto delle urne.
- ADTENDITE A FALSIS PROPHETIS
Guardatevi dai falsi profeti (Nuovo Testamento, Vangelo di Matteo, VII, 15). Sono le parole iniziali del passo: adtendite a falsis prophetis, qui veniunt ad vos in vestimentis ovium, intrinsecus autem sunt lupi rapaces ‒ guardatevi dai falsi profeti, che vengono da voi sotto spoglie di pecore, ma che nel loro intimo sono lupi rapaci.
Le parole iniziali adtendite a falsis prophetis sono riprese nel linguaggio comune come monito a guardarsi dai propinatori di false ideologie, di false concezioni, di falsi ideali.
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I “falsi profeti” abbondano nel mondo della politica, ove il terreno è particolarmente adatto alla semina di false ideologie, alla coltivazione di stolte ambizioni, di illusorie concezioni, di condotte illogiche, contraddittorie, irrazionali e assurde, di dissidi e di frenesie politiche.
Gli onorevoli “signori della politica” assumono troppo spesso condotte incoerenti tra visione ed azione e non si rendono conto che in questo modo sviliscono la loro dignità e aggravano la situazione. Le spiegazioni e motivazioni ex post, del tipo che non si può restare ancorati al passato, che sta cambiando tutto, che cambiano i partiti, che cambia il concetto di destra e sinistra e che occorre adattarsi ai tempi, etc., sono tutte cose campate in aria, sono solo parole per confondere le idee.
I falsi profeti della politica usano la testa del partito e non la propria, sono privi di ideali, sostengono interessi di parte o del partito, che vanno oltre i limiti del ragionevole, del conveniente e del lecito, a scapito dell’equità, dell’etica, della giustizia sociale e del bene comune.
In breve, detti falsi profeti, con la loro spocchia da Übermenschen (superuomini), hanno creato uno scompiglio generale, che torna a loro uso e consumo.
Questa avvilente situazione dettata da arroganza del potere è destinata a permanere finché gli elettori, nel segreto delle urne, non sapranno esprimere una chiara risposta di condanna dei falsi profeti della politica, non sapranno dar luogo ad una renovatio ab imis e ad un radicale cambio generazionale.
- AD USUM DELPHINI
Per l’uso del Delfino, ad uso del Delfino. L’espressione si richiama ad una serie di edizioni francesi preordinate ad usum Delphini, cioè ad uso esclusivo del primogenito del Re di Francia Luigi XIV, il Re Sole (1638-1715).
Per inciso, giova rammentare che il primogenito del re di Francia, in attesa di salire al trono, assumeva il titolo di Dauphin ‒ Delfino, in correlazione al Delfinato, cioè al feudo assegnato.
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In ambienti politici, ma anche nella vulgata comune, la storica espressione ad usum Delphini è oggi ripresa con varie significazioni, in senso ironico o spregiativo, per alludere ad un’operazione di adattamento funzionale ad un tipo di utilizzo o per indicare qualcosa che viene modificato in maniera artificiosa o poco attendibile, come ad es. per riferirsi a:
– discorsi politici, dichiarazioni od altro che vengono falsati a sostegno di qualche tesi o di una data parte politica;
– una situazione accomodata a beneficio di qualcuno;
– versioni di fatti che, in mala fede, siano state rivedute e corrette in vista di una particolare causa politica.
Si usa anche la forma ellittica ad usum col significato generico di: per determinati scopi, per usi particolari, per assecondare particolari esigenze, per interessi personali o di parte.
L’odierno mondo della politica è infarcito di elementi nefasti del tipo anzidetto e sembra tragga nutrimento solo da essi.
- AD UTRUMQUE PARATUS
Sempre pronto sia per l’una che l’altra cosa. Frammento tratto dal verso virgiliano: fidens animi ad utrumque paratus, seu versare dolos seu certe occumbere morti ‒ deciso a condurre l’inganno a termine oppure a subire con animo fermo la morte (Virgilio, Eneide, II, 61-62). Il verso virgiliano è riferito al greco Sinone, offertosi volontariamente, pronto ad entrambe le cose: o portare a termine l’inganno o soccombere di morte certa.
Il frammento virgiliano ad utrumque paratus è stato utilizzato come motto dai sovrani spagnoli (XVII sec.) ed è tuttora il motto delle forze submarine spagnole. Inoltre, è riportato sullo stemma del Comune francese Monistrol-sur-Loire.
Si può riprendere per esaltare i sentimenti di fierezza, di dignità e di orgoglio, che caratterizzano le scelte dei grandi personaggi.
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La realtà politica dei nostri giorni induce a una parafrasi per così dire invertita del pensiero virgiliano che, rovesciando e falsando il significato originario, fornisce un’immagine autentica dell’indegna situazione in atto.
Ciò che costituisce oggetto di forte critica e che si pone in posizione antitetica al pensiero virgiliano è il disonorevole comportamento di molti onorevoli “signori della politica” che, privi di un briciolo di dignità e di rispetto verso gli elettori, sono sempre ad utrumque parati, anziché ad un gesto di fierezza, di dignità e di orgoglio.
In breve, molti onorevoli “signori della politica”, che di onorevole hanno ben poco, sono sempre pronti a cambiare partito e schieramento politico, mossi solo da interessi di bottega, finalizzati alla conservazione il più a lungo possibile della loro confortevole poltrona.
Tale cambio di status politico in corso di legislatura comporta un duplice tradimento: verso gli elettori e verso il partito d’origine.
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