Estratto dal libro “Adagia ed dicta”

  1. AB ABSURDO

Dall’assurdo, per assurdo. Espressione usata dalla Scolastica medievale per suffragare e rafforzare l’importante principio aristotelico del c. d. terzo escluso, secondo cui un’affermazione non può che essere vera o falsa senza altre possibilità intermedie: «a fronte di due affermazioni contrarie, dimostrarne falsa una equivale a dimostrare vera l’altra, senza possibilità intermedie».

Il ragionamento ab absurdo, secondo la filosofia scolastica, porta a dimostrare la validità di una tesi attraverso la negazione del suo contrario o provando l’assurdo che deriverebbe ammettendo il suo contrario. In sunto, si tratta dell’argomentazione filosofica volta a dimostrare la verità di una proposizione, attraverso gli assurdi che deriverebbero ammettendo la contraria.

L’espressione ab absurdo è ancora in uso per far notare che un ragionamento, dimostrazione o argomentazione, discende da ipotesi assurde o da premesse erronee, da cui non si può che giungere a una conclusione errata o non vera.

  1. AB AETERNO

Dall’eternità (dei tempi), fin dall’eternità (dei tempi). Espressione del latino biblico e teologico per significare «ciò che non ha alcun inizio, principio, cominciamento», alludendo a eventi che sono stati predeterminati da Dio prima dell’inizio del tempo e che si sono poi adempiuti.

Nel linguaggio letterario, l’espressione ab aeterno (in it. loc. avv.) si usa per esprimere qualità e condizione di ciò che è eterno e quindi corrisponde a: «da un tempo indefinito, da sempre, da tempi lontanissimi, da tempo immemorabile».

  1. AB ALIO EXPECTES, ALTERI QUOD FECERIS

Aspettati dagli altri ciò che tu hai fatto a loro (Publilio Syro, Sententiae, A 2). L’aurea massima di «aspettarsi dagli altri quello che abbiamo fatto agli altri» è attestata nell’Antico Testamento ed anche in vari classici latini (Seneca, Epistulae, 94, 43; Lattanzio, Divinae Institutiones, I, 16, 10).

L’idea di fondo che ci viene ricambiato esattamente ciò che abbiamo ricevuto emerge anche dalla favola della volpe e la cicogna di Fedro (1, 26), da cui la morale: «aspettati da uno quanto gli hai dato». Il motivo compare poi in Terenzio (Eunuchus, 445; Adelphoe, 72) e compare altresì nel Boccaccio, dove si legge: «Madonna, voi m’avete renduto pan per focaccia» (Decameron).

La tradizione popolare annovera il detto: «chi la fa, l’aspetti».

Il monito publiliano ab alio expectes alteri quod feceris non di rado si traduce in realtà: corrispondenza tra il proprio comportamento e il trattamento che ci viene riservato dagli altri (cfr. anche la voce: par pro pari referto).

  1. AB AMICO INDISCRETO LIBERA NOS DOMINE

Dall’amico indiscreto liberaci o Signore. Detto medievale per sottolineare che la discrezione è una qualità fondamentale nei rapporti di amicizia.

La rivelazione di informazioni riservate è di per se un comportamento contrario alle legittime esigenze di delicatezza e riservatezza altrui, a fortiori se queste riguardano un proprio amico.

Un amico non è vero amico se non sa mantenere il segreto su cose o fatti che è comunque venuto a conoscenza per effetto del rapporto di amicizia.

  1. AB AMICO RECONCILIATO CAVE

Guardati da chi ti è amico dopo una riconciliazione. Detto medievale, derivante probabilmente dai versetti del Siracide (Ecclesiaste, 12), che suona come monito verso un amico che, dopo una lite, si è riconciliato.

Talvolta, la rappacificazione non è autentica ma avviene per interesse o per fini occulti.

In tema di amicizia, cfr. anche le voci: amica veritas; amicus certus in re incerta cernitur; amicus verus, rara avis; cum amicitia pares semper aut accipiat aut faciat; ita amare oportere, ut si aliquando esset osurus; neque nullis sis amicus, neque multis.

  1. AB ANTIQUO

Fin dall’antichità, sin dai tempi antichi. Espressione della letteratura latina (in it. loc. avv. e attr.), usata anche nella forma italianizzata ab antico, per indicare norme, usanze, consuetudini, tradizioni, situazioni o avvenimenti la cui origine risale a tempi molto lontani e non ha quindi una datazione precisa.

Il poeta Giacomo Leopardi (1798-1837) per esprimere il concetto di antica consuetudine usa una frase di particolare effetto: «perché si ha cura fino ab antico di chiuder gli occhi ai morti». L’espressione ab antico è presente anche in Dante: «quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico».

Si usa ancora oggi per indicare fatti o cose risalenti a tempi passati, molto lontane nel tempo, la cui origine si perde nella notte dei tempi e non ha una datazione storica precisa. Equivale quindi a: «da tempo antico, dai tempi antichi, da gran tempo, da tempo immemorabile».

  1. AB ASSUETIS NON FIT PASSIO

Dalle cose assuefatte non deriva impressione. L’espressione della letteratura latina indica che le cose abituali non suscitano particolari reazioni e non destano apprensione per il timore di eventi dannosi o sfavorevoli.

Ne deriva l’idea che da tutto ciò che c’è familiare o da persone conosciute, generalmente, non ci può essere procurata alcuna emozione o preoccupazione.

In pratica, indica che dalle cose consuete non nasce turbamento psicologico e, più genericamente, per indicare che le cose abituali non riservano sorprese di sorta.

  1. ABDITUS

Nascosto, invisibile, segreto. Termine della classicità latina (part. di abdo) per indicare ciò che non appare alla vista, ciò che è celato, occulto.

I classici usano il termine anche come primo elemento di parole composte e quindi, in pratica, è destinato ad assumere molteplici accezioni e significazioni, dipendenti dal contesto di riferimento e dagli svariati aspetti lessicali, es.: ex abditus – di provenienza segreta (Cicerone); sentenziae abditae – concetti astrusi (Cicerone); abdita rerum – concetti nuovi, sconosciuti (Orazio).

Ed a riguardo dell’invisibile, ovvero dell’impercettibile, in contrapposizione al tangibile, piace riportare l’aforisma del poeta e saggista veronese Tiziano Meneghello: «l’invisibile lo percepiamo, l’inesistente lo immaginiamo, ciò che abbiamo lo dimentichiamo».

  1. AB EXPERTO

Da esperto. Espressione del latino medievale per indicare: chi ne ha fatto esperienza, chi agisce con competenza e bravura, chi compie o tratta una cosa con competenza e bravura di esperto, chi parla di argomenti dei quali ha una diretta esperienza.

Oggi, si suole definire expertus chi ha acquisito completa conoscenza di qualcosa con lo studio, l’esercizio e l’esperienza in uno specifico settore, chi ha lunga pratica e abilità nella propria arte, chi ha maturato una sicura conoscenza di qualche cosa (cfr. anche le voci: experientia docet; rerum magistra experientia est).

  1. AB EXTRA

Dall’esterno. Espressione latina (in it. è loc. avv.) di largo impiego in italiano nel significato generico di: «dal di fuori».

Si dice di un atto, fatto, azione, fenomeno, operazione, attività o manifestazione, che resta al di fuori o si colloca al di fuori rispetto all’oggetto considerato. Si parla, ad es., di finanziamento ab extra, per indicare che proviene da una terza parte. È il contrario di: ab intra – dal di dentro.

In campo artistico, si parla di un processo creativo che si sviluppa ab intra ad extra – dall’interno all’esterno, da dentro di noi all’esterno, cioè con l’attualizzazione dell’idea in cosa concreta.

  1. AB HOC ET AB HAC

Da questo e da questa. Detto medievale per indicare cose riportate senza ordine nel corso di una conversazione ma anche per indicare un ragionamento o un’espressione senza senso. La fonte e/o l’origine potrebbe essere il detto: quando conveniunt Domitilla, Sibylla, Drusilla (cfr. la relativa voce).

Analogo concetto è espresso anche con l’espressione: et ab hic et ab hoc – e da qui e da questo, che indica propriamente il confuso inserimento di vari argomenti e pettegolezzi in una conversazione.

Si usa per indicare cose riportate confusamente, cose esposte senza organicità, così come vengono, ma si usa anche per riferirsi a un discorso o a un ragionamento espresso con scarsa proprietà di linguaggio. In chiave moderna, si dice del parlare a vanvera, a ruota libera.

  1. AB HOMINE HOMINI COTIDIANUM PERICULUM

Il pericolo di ogni giorno viene dall’uomo. Adattamento medievale di un topos della letteratura latina, per indicare che la minaccia o l’insidia da cui occorre premunirsi è rappresentata dall’uomo stesso.

In tema, fa spicco il pensiero senecano, da cui emerge che la belva assale per fame o per paura, mentre l’uomo è capace di uccidere il suo simile anche senza motivo (Seneca, Epistulae ad Lucilium, 103, 1-2).

Il concetto traspare anche dal distico catoniano: cum tibi praeponas animalia cuncta timere, unum hominem scito tibi praecipue esse timendum – se hai paura di tutti gli animali, sappi che il più temibile di tutti è l’uomo (Catone, Disticha, IV, 11). Sul punto, cfr. la voce: homo homini lupus.

In tema di pericolo, cfr. anche le voci: commune periculum concordiam parit; de morte hominis nulla est cunctatio longa; in rebus dubis plurimum est audacia; numquam periclum sine periclo vincitur; periculum in mora; qui amat periculum peribit in illo; ubi periculum, ibi lucrum.

  1. ABIIT AD PLURES

Si è unito ai più, se n’è andato a raggiungere i più. Eufemismo della letteratura latina per significare i defunti (molto più numerosi dei vivi).

Lo scrittore latino Petronio Arbitro (14-66 d. C.) riferisce della morte di un certo Chrysanthus, animam ebulliit – un’anima bella, ha finito di tirare il fiato anche lui (Petronio, Satyricon, 42). Per il prosieguo, cfr. la voce: medicus nihil aliud est quam animi consolatio.

In tema, è anche l’eufemismo plautino: abierunt hinc in communem locum – se ne andarono da qui verso un luogo comune (Plauto, Casina, 18). Sono espressioni che designano la morte come luogo verso cui tutti noi convergiamo.

L’eufemismo latino abiit ad plures è ripreso per indicare una persona deceduta.

Sul tema che nessuno può opporsi al destino comune, cfr. anche le voci: hominis tota vita nihil aliud quam ad mortem iter est; stat sua cuique dies; vivere tota vita discendum est et … tota vita discendum est mori.

  1. AB ILLO TEMPORE

Da quel tempo. Detto medievale per indicare che dopo un determinato fatto storico, da quel tempo, si è sempre seguito la medesima prassi, oppure per dire che da quell’avvenimento, si è sempre operato in quel determinato modo.

Nell’uso italiano, è un modo ironico o scherzoso per indicare che una certa cosa risale a molto tempo fa, che un certo modo di operare è in atto da data immemorabile.

  1. AB IMIS FUNDAMENTIS

Dalle più basse fondamenta. Espressione della classicità latina ma i critici letterari ritengono che la sua fortuna sia probabilmente legata a una celebre frase di Francis Bacon (filosofo e scienziato inglese, 1561 – 1626), usata nella sua opera Instauratio magna, ove si legge testualmente: instauratio facienda ab imis fundamentis – il rinnovamento va fatto dalle fondamenta più profonde. Con tale opera l’autore propone di ricostruire lo scibile umano, demolendo i pregiudizi scolastici e aristotelici.

Il frammento ab imis (in it. è loc. avv. e attr.) è oggi assunto nel significato sinonimico di: dalle più profonde origini, dalle radici più profonde.

Rinnovare ab imis significa trasformare radicalmente qualcosa, rinnovare profondamente un modo di vita o un tenore di vita, riformare una data situazione (cfr. anche la voce: renovatio ab imis).

  1. AB IMMEMORABILI (tempore)

Da tempo immemorabile, da tempo remotissimo. Espressione della tradizione giuridica, di ampio respiro anche nel linguaggio comune, per indicare che una determinata situazione di fatto, uno stato di cose o un determinato modo di essere, sfugge alla memoria dell’uomo, avendo origini così antiche che si perdono nel tempo.

È ripresa nel linguaggio comune per indicare che una cosa risale a tempi lontanissimi, di cui se n’è perduta la memoria, ed è sempre stata tale.

  1. AB IMO AD SUMMUM

Dalla parte più bassa a quella più alta (Orazio, Satire, II, 3, 308). L’espressione oraziana esprime l’immagine di totalità di un corpo e, più in generale, l’immagine di interezza e integrità.

Il concetto è presente in vari classici latini, seppure in versioni diversificate: Plauto, Epidicus, 623; Apuleio, Metamorfosi, III, 21; Cicerone, Pro Roscio, VII, 20; Petronio, Satyricon, 102, 13.

Corrisponde ai detti moderni: «totalmente, integralmente, dalla testa ai piedi».

  1. AB IMO PECTORE

Dal profondo (del petto) del cuore (Lucrezio, De rerum naturae, III, 57; Virgilio, Eneide, VI, 55). L’espressione trova ampi riscontri nella letteratura latina (si hanno attestazioni anche in Catullo e Ovidio) e indica che il grande dolore fa sgorgare le parole dal profondo del cuore.

Si può riprendere in diversi casi pratici, in un’affinità di significati, come ad es. per indicare:

  • che si parla con assoluta sincerità d’animo;
  • che si esprime ciò che si pensa con animo sincero;
  • la spontaneità e genuinità di sentimenti nell’esprimere le proprie emozioni o le proprie idee, talché quanto si sta dicendo non può che venire dal profondo del cuore e corrispondere a verità.

Si usa anche per annotare l’erompere improvviso e incontenibile di espressioni di sdegno, di ira, di amore e di passione. Si dice ad es.: le sue parole vengono proprio ab imo pectore.

In tema di sincerità, cfr. anche le voci: ad perniciem solet agi sinceritas; aevo rarissima nostro simplicitas; assuescere dicere verum et audire; dolosus versatur in generalibus; ex propriis sensibus; simplex ratio veritatis; utilius homini nil est quam recte loqui.

  1. AB INCUNABULIS

Fin dalle fasce (fin dalla culla, fin dalla prima infanzia). Espressione metaforica usata da Livio (Storia Romana, IV, 36, 5), ma anche da altri scrittori latini (Ammiano Marcellino, Quintiliano, Seneca), sia per significare «fin dalle origini», come anche per indicare qualcosa di molto radicato, tanto da sembrare addirittura innato (fenomeno innato).

Nell’adattamento italiano, corrisponde a: «fin dai primordi, fin dagli albori, fin dagli inizi», et sim.

  1. AB INITIO

Da principio. Espressione della classicità latina (in it. è loc. avv.) per indicare che un dato modo di procedere o una determinata prassi ha origini antichissime ed è sempre stata pacificamente seguita.

Nell’adattamento italiano, surroga espressioni del tipo: fin dalle origini, fin dall’inizio, originariamente, fin da principio, dal primo principio, fin dalle origini, fin da quando ha avuto inizio, et sim.

Si usa anche per indicare che si comincia o ripiglia a dire o fare una cosa fin dall’inizio.

  1. AB INTESTATO (successio)

Da chi non ha fatto testamento, da chi è deceduto senza aver fatto testamento. Formula della tradizione romanistica, di età classica e postclassica (Paolo), evinta dalla massima: legitima hereditas est, quae ab intestato defertur – chiamasi eredità legittima quella che viene conferita senza testamento. La successione ab intestato è la situazione derivante da chi non ha fatto testamento o da chi l’ha fatto ma la cui eredità non è stata adita, perché l’erede non è entrato in possesso o per rinuncia o per impedimenti, quali la morte (Digesto giustinianeo, 50, 16, 54).

In continuità con la tradizione giuridica, è ancora oggi definita ab intestato la successione ereditaria legittima o intestata, cioè quella che proviene da parte di chi è morto senza aver fatto testamento. In pratica, si suole indicare la situazione che si verifica quando il de cuius non abbia disposto dei suoi beni con atto testamentario, ovvero non abbia lasciato nessuna disposizione testamentaria o lo abbia fatto solo parzialmente.

  1. AB INTUS

Dal di dentro (Persio, Satire, III, 30). Espressione della letteratura latina (in it. è loc. avv.), ascritta in particolare a Persio ma ampiamente usata da vari classici latini, per indicare ciò che proviene da dentro, dall’interno. È il contrario di ab extra – dal di fuori.

Si usa per indicare un atto, un fatto, un’azione, un fenomeno, un’operazione, un’attività o una manifestazione che proviene dall’interno o che si colloca all’interno rispetto all’oggetto considerato.

  1. AB IOVE PRINCIPIUM

Da Giove il principio. Sono le parole iniziali del celebre verso virgiliano: ab Iove principium, Musae: Iovis omnia plena; ille colit terras, illi mea carmina curae – o Muse, l’inizio viene da Giove, tutto è pervaso da Giove, egli provvede al mondo ed ha cura delle mie canzoni (Virgilio, Bucoliche, III, 60, 61).

Dall’intero contesto si desume che il principio di tutte le cose è Giove, dato che ogni azione umana, nel pensiero virgiliano, non può che prendere le mosse dalla divinità.

Invero, nei proemi delle opere poetiche latine, si fa spesso riferimento a Giove (unitamente ad Apollo, divinità ispiratrice della poesia) che, essendo padre e capo delle altre divinità, era considerato dai poeti anche la prima fonte di ogni ispirazione.

Il motivo è stato poi reinterpretato nel pensiero cristiano, finendo per significare che in ogni azione occorre prendere ispirazione da Dio e rispettarne la volontà. In questo senso, il motivo è riportato anche da Giuseppe Giusti (Proverbi toscani, pag. 272): «non si comincia ben se non dal Cielo».

Il frammento virgiliano ab Iove principium (in it. è loc. avv.) si può citare per sottolineare l’importanza dell’inizio di qualcosa o per richiamare l’attenzione sull’inizio di un’attività, di una narrazione, di un fatto, di una cosa basilare.

Si può citare anche in slittamento di significato per far capire che, in un’esposizione, è bene cominciare dalla persona o dalla cosa più importante.

  1. AB IRATO

Da chi è adirato, da uno in preda all’ira, in stato d’ira. Espressione della classicità latina per esprimere lo stato d’animo di chi è dominato dall’ira, di chi è mosso dall’ira, di chi è in preda all’ira, di chi è sotto l’impeto dell’ira.

In tema, fa spicco l’insegnamento publiliano: eripere telum non dare irato decet – a una persona irata bisogna togliere il dardo, non darlo (Publilio Syro, E 11), che rimarca l’incoscienza di dare un’arma a chi è sotto l’impeto dell’ira, e altresì il senecano: maximum remedium irae mora est – il miglior rimedio all’ira è l’indugio (Seneca, De ira, III, 39), ad indicare che occorre temporeggiare perché così l’ira nel frattempo sbollisce e lascia nuovamente spazio alla ragione.

A riguardo di chi si trovi in preda dell’ira, sembrano significative le massime: scelera non habere consilium – i delitti non hanno cervello (Quintiliano, Institutiones oratoriae, VII, 2, 44); Diis proximus ille, quem ratio non ira movet – è prossimo agli dei colui che è sempre spinto dalla ragione e mai dall’ira; clausae sunt aures, obstrepente ira – sono chiuse le orecchie quando ruggisce l’ira (Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, X, 8, 1, 5); professio a matre irata facta non facit fidem – la dichiarazione di una madre adirata non fa fede.

Oggi, l’espressione ab irato (in it. è loc. attr.) si usa per indicare:

  • chi ha agito sotto l’impulso della collera,
  • qualcosa che è stato fatto o detto in stato di collera,
  • una decisione presa sotto l’impulso dell’ira.

Per inciso, va detto che è buona norma considerare con cautela un atto compiuto in un momento d’ira o una frase pronunciata in stato di collera.

Si usa anche in tono di deplorazione o di scusa, a seconda dei casi, in relazione ad una decisione presa da parte di una persona accecata dall’ira, sotto gli effetti dell’ira.

  1. AB ORIGINE

Fin dalle origini. Espressione della classicità latina, ampiamente usata dagli scrittori e dagli storici latini per indicare: fin dall’inizio, fin dal principio.

In tema, non mancano significative citazioni letterarie:

  • nascentes morimur, finisque ab origine pendet – nascendo moriamo e la fine incombe fin dal principio (Manilio, Astronomica, IV, 16), indica che alla nascita consegue inevitabilmente la morte;
  • omnes si ad originem primam revocantur, a dis sunt – se risaliamo alla prima origine, tutti veniamo da Dio (Seneca, Epistulae, 44, 1), indica che Dio è all’origine di tutto.

L’espressione ab origine (in it. è loc. avv.) si può usare come equivalente di: «fin dalle origini, originariamente, fin da principio, dal primo principio, fin dalla nascita, fin da quando ha avuto inizio», et sim.

  1. AB OVO

Dall’uovo (Orazio, Ars poetica, 147). La fonte è un verso oraziano che, nel parlare dell’arte narrativa di Omero, rileva come quest’ultimo nec gemino bellum Troianum orditur ab ovo – né la guerra troiana cominci dal doppio uovo, non cominci a raccontare la guerra di Troia dalla storia delle due uova (nate da Leda dopo il suo accoppiamento con Zeus in forma di cigno), ma trascini l’ascoltatore in medias res, senza soffermarsi sugli antefatti della vicenda.

Nella leggenda, Leda, moglie di Tindaro, re di Sparta, fecondata da Giove, tramutato in cigno, concepì due uova: dal primo uovo nacquero Castore e Clitemnestra e dal secondo Polluce ed Elena. Quest’ultima, andata sposa a Menelao, divenuto nel frattempo re di Sparta, venne rapita dal principe troiano Paride. Tale rapimento determinò la causa della guerra di Troia cantata da Omero.

Da notare peraltro che l’espressione ab ovo è presente, per lo più con valore negativo, in vari classici latini.

Dall’immagine oraziana, si coglie l’implicito invito a non cominciare ab ovo nel raccontare una vicenda storica, a non farla troppo lunga, a non rifarsi troppo da lontano, salvo che questa metodologia non sia una necessità di ordine narrativo.

Più propriamente, a chi sogna di diventare scrittore, Orazio consiglia, ad instar dell’icastico stile omerico, di non perdersi troppo nel racconto degli antefatti, di non cominciare ab ovo ma di entrare subito in argomento.

L’espressione oraziana ab ovo (in it. è loc. avv.) è oggi d’uso comune per indicare che una storia o una questione, senza alcuna necessità, viene descritta fin dai più remoti antefatti, dalle sue più lontane origini. Quindi, narrare una cosa ab ovo significa prendere inutilmente una questione troppo alla lontana: dalle più lontane origini, dal principio.

Sull’arte di scrivere, cfr. anche le voci: lecta potenter erit res; mens divinior; multa paucis; scribendi recte sapere est principium et fons; si vis me flere, flendum est primum ipsi tibi; usus scribendi.

  1. AB OVO USQUE AD MALA

Dall’uovo fino alle mele, a partire dall’uovo e fino alle mele (Orazio, Satire, I, 3, 6). Secondo la descrizione degli storici latini, il pasto degli antichi Romani iniziava con un uovo sodo, ab ovo (che nelle abitudini culinarie dei romani costituiva l’antipasto), e terminava poi con le mele, usque ad mala (con la frutta).

Nell’adattamento italiano, indica «dall’inizio alla fine».

Oggi, è in uso anche il detto «essere alla frutta», per dire che si è agli estremi disperati tentativi e, più genericamente, alla fine di qualcosa.

  1. ABROGATIO

Abrogazione. Nel sistema dell’antica Roma non era prevista l’abrogazione espressa di una legge ma semmai un’eventuale abrogazione tacita, determinata da una nuova legge disciplinante la medesima materia. Vigendo il principio generale secondo cui ogni legge era destinata ad avere perpetua vigenza, una legge nuova non poteva abrogare espressamente la precedente.

Il termine abrogatio è passato nella moderna fraseologia, a opera dei giuristi delle varie epoche, e divenuto d’uso corrente per significare che si intende togliere vigore, valore od effetto ad una disposizione di legge.

Nel vigente ordinamento sono contemplati tre tipi di abrogazione:

  • abrogazione espressa, che si ha quando la legge abrogatrice indica espressamente la legge o la norma abrogata;
  • abrogazione per incompatibilità, detta anche abrogazione tacita, rappresentata dall’obiettivo contrasto tra il principio informatore della prima e quello della seconda norma, prescindendo dall’animus abrogandi del legislatore;
  • abrogazione per regolamentazione ex novo dell’intera materia, detta abrogazione implicita, che si ha quando il legislatore introduce un nuovo, esaustivo e organico sistema normativo.

 

  1. ABRUPTE

Improvvisamente. Avverbio di uso frequente nella letteratura latina nel significato generico di: cominciare di colpo.

Nell’adattamento italiano, si usa anche nel significato di: «precipitosamente, all’improvviso, in modo travolgente».

  1. ABSENS HAERES NON ERIT

Gli assenti hanno sempre torto. Detto del latino volgare medievale per indicare che gli assenti, cioè coloro che non si trovano nel luogo ove è richiesta la loro presenza, si pongono ex re ipsa dalla parte sbagliata.

Infatti, gli assenti non hanno modo di esporre e di far valere le loro ragioni e gli eventuali effetti negativi non possono che ricadere su di loro.

  1. ABSENTE DOMINO RES MALE GERITUR

Quando il padrone è assente le cose risultano mal gestite. Detto del latino volgare medievale per indicare che quando il capo manca o allenta la guardia, i suoi sottoposti tendono ad abbandonarsi al lassismo.

Si usa per significare che il comportamento dei dipendenti si modella su quello dei loro dirigenti, il cui agire, oltre che retto ed onesto, deve essere sempre di esempio.

  1. ABSENTEM ACCIPERE DEBEMUS EUM, QUI NON EST EO LOCI, IN QUO LOCO PETITUR

Dobbiamo ritenere assente colui che non si trova nel luogo in cui viene cercato. Formula della tradizione giuridica per indicare che si considera assente chi non si trova presso la propria abituale dimora.

Nel nostro ordinamento, secondo l’art. 139 c.p.c., una persona si deve ritenere assente quando non viene trovata nel Comune di residenza, nella casa di abitazione o dove ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio.

Si parla di assenza quando un soggetto non sia più reperibile nel luogo del suo ultimo domicilio e non se ne abbiano notizie da almeno due anni.

 

  1. ABSENTEM LAEDIT CUM EBRIO QUI LITIGAT

Chi litiga con un ubriaco offende un assente (Publilio Syro, A 12). L’adagio publiliano rimarca l’inutilità di adirarsi con chi non può capire, qual è la situazione patologica di un ubriaco.

A riguardo della perdita di lucidità mentale dell’ubriaco, fa spicco il luogo senecano: nihil aliud est ebrietas quam voluntaria insania – null’altro è l’ebbrezza che una volontaria pazzia (Seneca, Epistulae, 83, 17), oggi estensibile anche a chi ha fatto uso di sostanze stupefacenti.

Si riprende per indicare che è inutile trattare o prendersela con chi al momento non è nel pieno delle proprie facoltà mentali, perché sarebbe come trattare o prendersela con un assente.

  1. ABSIT INIURIA VERBO

Sia lungi dalle parole l’offesa (Livio, Ab Urbe condita, Libri, IX, 19). La frase deriva dalla deformazione del passo liviano: absit invidia verbo et civilia bella sileant – possano le mie parole non essere fraintese e tacciano le guerre civili. Più correttamente, si deve interpretare: «l’astio sia assente dalle mie parole», nel senso che non le tocchi, non le colpisca, sottintendendo di non prendere come un’offesa una determinata parola o frase.

Della frase di Livio si cita solitamente la prima parte, modificata in absit iniuria verbo (in it. è loc. avv.), per attenuare l’effetto di una dichiarazione che, a qualcuno, potrebbe sembrare offensiva.

Nei casi pratici (si usa anche al plurale, absit iniuria verbis), può assumere vari significati, a seconda della circostanza o dell’ambito di riferimento, come ad es.:

  • per dire che non si intende, nonostante le apparenze, offendere qualcuno con le proprie parole;
  • per accompagnare qualcosa di non gradito per chi ascolta;
  • per alleggerire ciò che si dice con assoluta franchezza o per amore di verità ma tuttavia senza alcun malanimo;
  • per attenuare l’effetto di una frase pungente;
  • per farsi scusare un’espressione inopportuna o che potrebbe apparire ingiuriosa per chi ascolta;
  • per escludere a priori cattivi intenti o cattive interpretazioni quando si teme che le proprie parole possano in qualche modo reputarsi offensive per qualcuno;
  • per indicare l’assenza di intenzione di offesa nel riportare qualcosa.

In talune situazioni, suona come implicito invito, rivolto a chi legge oppure a chi ascolta, a non deformare in senso maligno o malizioso il significato di una parola o di una frase e quindi assume significato di: «possano le mie parole non essere fraintese».

Nelle forme colloquiali, trova molteplici occasioni di impiego, in un’affinità di significati, come equivalente di:

  • sia detto senza offesa,
  • l’offesa sia lontana dalla parola,
  • sia detto senza ingiuria,
  • sia detto senza intenzione di offendere,
  • sia lungi dalla parola ogni intenzione di offendere,
  • si tolga ogni significato ingiurioso alla parola.

  1. ABSIT OMEN

Sia assente il presagio. Detto medievale con cui si tende ad allontanare la mala sorte, che sembra presagirsi da un fatto o da un evento.

In pratica, si usa per fare gli scongiuri perché qualcosa di positivo accada e di negativo non accada e quindi implicitamente sta per: «escluso ogni cattivo augurio». Si contrappone a «sit omen» (cfr. la relativa voce).

Nelle forme colloquiali, trova molteplici occasioni di impiego, in positivo o in negativo, come ad es. per:

  • pregare ardentemente qualcuno di non fare qualcosa;
  • implorare il verificarsi di un evento dannoso;
  • scongiurare qualcuno di non dire niente a nessuno;
  • supplicare di porgere aiuto a qualcuno;
  • invocare qualcuno affinché sventi un pericolo.

  1. ABSQUE AERE MUTUM EST APOLLINIS ORACULUM

Senza denaro è muto l’oracolo di Apollo. Adagio riportato da Binder (Thesaurus adagiorum latinorum, 42) che lo riferisce a Filippo il Macedone: «dietro rilevanti sovvenzioni, la sacerdotessa di Delfo parlava in suo favore».

Il riferimento pratico è la divinazione, che è la presunta capacità di ottenere informazioni da fonti soprannaturali, accessibili solo a ciarlatani che affermano di possedere arti divinatorie.

L’attività avviene attraverso un rituale, spesso in un contesto religioso, che si basa sull’interpretazione di segni, simboli od eventi, ma ci sono anche rituali per la predizione del futuro di una persona.

In genere, indovini o ciarlatani sono persone che si ingegnano a sopravvivere dando false o strampalate informazioni.

In tema di magia, indovini e ciarlatani cfr. anche le voci: cum haruspicem viderit; scire nefas; mirabile videtur, quod non rideat aruspex, cum haruspicem viderit; vaticinatio.

  1. ABSQUE MODO TRACTUS SAEPISSIME FRANGITUR ARCUS

L’arco tirato senza misura, molto spesso, si rompe. Detto proverbiale medievale, adattamento di un topos della letteratura latina, per indicare uno stato di tensione prossimo al limite di rottura, sia esso sul piano psichico o su quello dei rapporti personali o sociali.

In senso generale, l’immagine indica uno stato di ansietà, di forte eccitazione nervosa, di aspettativa ansiosa, spesso a causa di uno sforzo di concentrazione di energie nervose verso un determinato scopo.

In campo politico, l’immagine dell’arco troppo teso si può riferire a una situazione politica prossima al limite di rottura sul piano delle relazioni interpartitiche.

  1. ABSTINE ET SUSTINE

Astieniti e sopporta. Celebre motto, attribuito al filosofo greco Epitteto (50 – 138 d. C.) da Gellio Aulo, scrittore ed erudito latino (II sec. d. C.), fatto proprio dalla filosofia stoica latina, secondo cui si deve: «sopportare tutto quello che capita e astenersi da ogni desiderio o impulso verso le cose esteriori».

Il motto è forse meglio conosciuto nella versione: «substine et abstine», cfr. la relativa voce.

In senso generale, suona come esortazione ad astenersi da tutto ciò che può turbare la propria serenità e a sopportare gli inevitabili mali e dolori della vita.

Nell’uso comune, si può riprendere in vari casi pratici, come ad es. per invitare a:

  • tenersi lontano da qualcosa o di fare a meno di qualcosa;
  • astenersi dai vizi, dagli eccessi, dall’alcool, dal fumo, etc.;
  • evitare di fare qualcosa, per una scelta spirituale o pratica;
  • evitare di fare commendi su qualcosa o qualcuno.

  1. ABUNDANS CAUTELA NON NOCET

L’eccessiva precauzione non guasta. Adagio ascritto a Cicerone, ma concettualmente presente anche in altri classici latini (Carisio Flavio Sosipatro, Ars grammatica, IV sec. d. C.), per sottolineare come una prudente cautela non nuoccia.

In tema, non mancano significative espressioni letterarie:

  • omnia prius experiri quam armis sapientem decet – al saggio si addice tentare ogni cosa prima di passare alle armi (Terenzio, Eunuchus, IV, 7, 19), raccomanda la calma e la prudenza prima di giungere a soluzioni estreme;
  • ut medicina valetudinis, sic vivendi ars est prudentia – come la medicina è l’arte della salute, così la prudenza è l’arte del saper vivere (Cicerone, De finibus, V, 6, 16), esorta ad agire con prudenza;
  • namque solent, primo quae sunt neglecta, nocere – infatti, le cose trascurate all’inizio finiscono di solito per danneggiare (Catone, Disticha, IV, 9, 2), indica che le cose contrarie ai nostri obiettivi vanno bloccate fin dall’inizio prima che producano danni irreparabili.

L’adagio ciceroniano abundans cautela non nocet si riprende per significare che:

  • non nuoce un’idonea azione preventiva intrapresa per evitare un possibile pregiudizio;
  • in qualsiasi attività, occorre procedere con cautela per non incorrere in qualche spiacevole inconveniente.

  1. AB UNO, DISCE OMNES

Da uno capisci come sono tutti (Virgilio, Eneide, II, 65). Sono le parole di Enea che, riferendosi allo spergiuro Sinone (il greco traditore che ha facilitato l’ingresso nelle mura di Troia del fatidico cavallo di legno pieno di armati, fatale avvenimento che segnò la fine della città), perviene a un’accusa generalizzata nei confronti dei Greci.

Il luogo virgiliano esprime, in effetti, la riprovazione verso tutti indistintamente i Greci, sia per la loro slealtà sia per la loro perfidia: accipe nunc Danaum insidias et crimine ab uno disce omnes – ed ora ascoltate le insidie dei Greci e da un solo loro inganno imparate a conoscere tutti gli altri. Dalla disonestà di un solo individuo, dice l’eroe troiano alla regina Didone, impara a conoscere anche gli altri della stessa specie.

Virgilio, nella sua descrizione sui Greci ingannatori, non risparmia neppure Epeo, costruttore del cavallo di Troia (simbolo della perfidia greca), definendolo doli fabricator Epeos – Epeo, fabbro d’inganni (Virgilio, Eneide, II, 106).

Occorre peraltro ricordare che nell’antica Roma era molto diffusa l’opinione della scarsa affidabilità dei Greci. I riferimenti in tal senso sono copiosi nella letteratura latina.

L’espressione virgiliana ab uno disce omnes è oggi ripresa per lo più con fini polemici per indicare che da un solo esempio o da alcuni particolari si può dedurre come sia la totalità: da uno impara a conoscerli tutti, da uno solo capisci come sono tutti gli altri.

Con riferimento ad un gruppo di persone di una certa risma, si dice che come è una di loro così si presume siano tutte, nel senso che si considerano tutte uguali.

Simile generalizzazione, che estende il comportamento di un singolo a una collettività, è oggi considerata un procedimento arbitrario, respinto dalla logica.

  1. AB URBE CONDITA

Dalla fondazione dell’Urbe. È la tradizionale espressione usata dagli storici ed eruditi romani per riferirsi alla data della fondazione di Roma (Ab Urbe condita libri è anche il titolo usato da Tito Livio per la sua grande opera sulla storia di Roma), mentre la data delle leggi e delle iscrizioni ufficiali era indicata preferibilmente col nome del magistrato in carica.

Comunemente, ab urbe condita si traduce «a datare dalla fondazione della città», riferendosi scilicet alla città di Roma, considerata la città per antonomasia. Senza disquisire sulle origini di Roma, ossia sulla fondazione da parte degli Etruschi o sulla preesistenza di una città latina, sta di fatto che gli Etruschi introdussero per primi in Italia il modello della Città-Stato ed estesero il loro dominio, e con esso l’organizzazione cittadina, a tutta la Toscana, spingendosi verso l’VIII e VII sec. a. C. anche a Nord fino a Melpo (Milano), Felsina (che, venuta poi in mano ai Galli verso il 360 a. C., venne da loro battezzata Bononia – Bologna) e Mantova e a Sud fino a Fidene, Capua, Nola.

Secondo la tradizione formatasi da Varrone in poi (ossia dalla prima metà del I° sec. a. C.), la Città-Stato di Roma sarebbe stata fondata il 21 aprile del 753 a. C. (si dice così che Cristo nacque nel 753 a. u. c. e morì nel 786 a. u. c.). Fin dalla sua fondazione, l’organizzazione cittadina di Roma assunse la connotazione di una civitas, intesa come corporazione di uomini liberi e sovrani, a imitazione delle Città-Stato esistenti nel mondo ellenico, dotata di tre organi fondamentali: uno o più capi, un consiglio degli anziani (senato), un’assemblea popolare (comizio).

L’espressione ab urbe condita (in it. è loc. avv.) è oggi usata in testi letterari ed epigrafici (anche con le semplici iniziali a. u. c.) per indicare l’era che muove dall’anno della fondazione di Roma (753 a. C.).

  1. AB URBIS FABRICAM

Per la fabbrica della città. Secondo la tradizione, l’espressione risalirebbe al tempo della ricostruzione della Basilica di San Pietro (la prima Basilica è stata costruita ad iniziativa di Costantino sul sito della sepoltura dell’apostolo Pietro). I carri che portavano il materiale edilizio ad uso della costruzione della Basilica recavano la sigla «ab u. f.», per significare che potevano circolare liberamente e che erano esenti da dazi e gabelle.

L’espressione ab usum fabricae – per l’uso della costruzione (abbreviata nella sigla a. u. f.) sarebbe stata poi apposta anche sui materiali destinati alla costruzione del Duomo di Santa Maria del Fiore di Firenze, materiali esenti da ogni dazio e gabella (l’etimologia fiorentina era propriamente: ad usum florentinae operae – all’uso dell’opera fiorentina). E sempre secondo la tradizione, da questa sigla deriverebbe l’espressione toscana «a ufo», cioè a sbaffo, a spese degli altri. L’espressione linguistica si ricollega in qualche modo anche alla costruzione del Duomo di Milano, abbreviata nella sigla a. u. f., sigla che esentava dai pedaggi i barconi in servizio per il Duomo.

Ancora oggi si usa l’espressione «a ufo» con sfumatura negativa per indicare qualcosa goduta a spese o a carico di altri. In particolare, si dice di un approfittatore, di uno che sfrutta una situazione favorevole a spese altrui.

  1. ABUSUS NON TOLLIT USUM

L’abuso non fa venir meno l’uso. Formula della tradizione giuridica, ripresa anche nel linguaggio comune, per indicare che il cattivo uso di una cosa o l’impiego distorto di un bene nulla toglie alla bontà della cosa o del bene.

L’abuso che si fa di una cosa non significa che di essa non si possa fare un ragionevole uso, né significa, in senso per così dire rovesciato, che se l’abuso di qualcosa è dannoso, è necessario astenersene in assoluto. Ad. es., il fatto che taluno abusi del vino non significa che il suo uso moderato sia dannoso.

In senso generale, si dice dell’uso eccessivo o improprio, della mancanza di misura o dell’uso cattivo, come: abuso di forze, di farmaci, di denaro, dell’altrui pazienza, etc.

  1. ABYSSUS ABYSSUM INVOCAT

L’abisso chiama l’abisso. Parole della Bibbia (Salmo 42-43, 7) che suonano come monito a tenersi lontani dalla china pericolosa del peccato, del vizio e del male, perché a peccato si aggiunge peccato, a vizio si aggiunge vizio e a male si aggiunge male.

Il motivo è ripreso, con una variante sempre di attualità, da San Bernardino da Siena (1380-1444) il quale delinea come «abisso insaziabile le spese smodate che portano con sé l’abisso insaziabile dei guadagni illeciti».

L’espressione abyssus abyssum invocat è ripresa nel linguaggio comune per indicare che il male inevitabilmente attira a sé altro male: «un male chiama l’altro».

  1. A CAPILLIS USQUE AD UNGUES

Dai capelli fino alle unghie. Espressione figurata di largo impiego nella classicità latina per indicare l’insieme degli aspetti distintivi e caratteriali di una persona.

Si trovano attestazioni in Plauto (Epidicus, 623), Apuleio (Metamorfosi, III, 21), Cicerone (Pro Roscio, VII, 20), che usano l’espressione anche in senso lato per indicare qualcosa nel suo insieme, la totalità di qualcosa.

In campo semantico, l’immagine è ripresa anche per indicare una cosa, un’iniziativa o una situazione, nella sua totalità, l’insieme delle cose di cui si parla.

  1. A CAPITE BONA VALETUDO

Dal capo viene la buona salute (Seneca, De clementia, II, 2). L’adagio senecano fa capire che le persone investite di incarichi istituzionali e quelle che occupano posizioni elevate sono chiamate a dare il buon esempio.

Gli insegnamenti di morale sociale di ogni epoca fanno notare che il buon esempio dei governanti è destinato a riverberarsi sui comportamenti dei governati, che vengono trascinati a fare altrettanto.

In tema di buon esempio, cfr. anche le voci: bonis quod bene fit haud perit; bonum diffusivum sui; componitur orbis regis ad exemplum; exemplo deterriti delinquunt minus; in vulgus manant exempla regentum; probo beneficium qui dat, ex parte accipit; regis ad exemplum totus componitur orbis.

La classe politica dei nostri giorni sta vivendo un grande sbandamento, contrassegnato da conflittualità permanente e da perdita di valori, e in tale situazione è pura utopia pensare che possa dare il buon esempio (amplius, cfr. le voci: habitare in oculis; in negotio sine periculo; bonus atque fidus, iudex honestum praetulit utili).

  1. ACCESSIT

Si è avvicinato (si avvicinò al vincitore). È la terza persona del perfetto indicativo del verbo accedere – avvicinarsi, usata in italiano come s. m.

Nelle vecchie scuole e accademie, si indicava con l’accessit la menzione o il riconoscimento concesso a chi negli esami scolastici o nei concorsi accademici otteneva la votazione più vicina all’«ottimo» e, più in generale, a chi si era avvicinato al conseguimento del premio, al premiato o al vincitore. In altri termini, otteneva l’accessit chi riusciva più meritevole dopo il premiato o il vincitore.

In prosieguo di tempo, ottenere l’accessit o riportare l’accessit venne a significare il conseguimento della votazione richiesta per il superamento della prova.

Nei liberi adattamenti, l’accessit può assumere varie connotazioni, come ad es.:

  • per indicare che un candidato ha ottenuto voti sufficienti per passare a una classe superiore:
  • per indicare che alcune opere di partecipanti a un concorso, pur non ottenendo il primo premio, sono ritenute di livello superiore a tutte le altre.

  1. ACCESSIT PATELLAE … DIGNUM OPERCULUM

La pentola trova il suo degno coperchio (San Girolamo, Epistulae, VII, 5). L’immagine fa capire che ogni popolo ha i politici che si merita.

Nella tradizione proverbiale, l’immagine della pentola e del coperchio è presente in vari modi di dire, come ad es.:

  • mettere il coperchio sulla pentola, per indicare che si vuole cercare di nascondere qualcosa;
  • il diavolo insegna a fare le pentole, ma non i coperchi, per indicare che insegna a fare il male ma non a nasconderlo;
  • non vi è pentola sì brutta che non trovi il suo coperchio, per indicare un matrimonio tra due persone di brutto aspetto.

Ai nostri giorni, a fronte del disinteresse per la politica, i politicanti di mestiere trovano spazio per fare il bello e il cattivo tempo, forti del fatto che i cittadini, specie delle classi popolari, mancano di quel minimo di organizzazione e preparazione che possa in qualche modo contrastare i loro sporchi interessi.

Fin tanto che i cittadini rimangono nell’ignoranza politica, non si organizzano e non si evolvono politicamente, gli sfrontati professionisti della politica hanno buon gioco perché, in effetti, «governano l’ignoranza dei governati».

Così i birboni «signori della politica» non perdono occasione per approfittare della mancanza di preparazione e di organizzazione delle masse.

E la responsabilità della scarsa cultura generale delle masse ricade ancora una volta sui «signori della politica» che poco o nulla fanno per acculturare il volgo.

Questi signori hanno già perso la stima e la fiducia della maggioranza dei cittadini, tant’è vero che l’affluenza alle urne è ora ridotta a meno del 50% degli aventi diritto e, quindi, per la storia sono già condannati.

Questa dolorosa situazione è destinata a permanere finché gli elettori, nel segreto delle urne, non sapranno esprimere una chiara risposta di condanna nei confronti degli attuali «signori della politica» (amplius, cfr. le voci: habitare in oculis; bonus atque fidus, iudex honestum praetulit utili; nocturna versate manu, versate diurna).

  1. ACCESSUS AD AUCTORES

Avvicinamento agli autori. In filologia classica era così definita una sorta di premessa sui contenuti principali dell’opera che i commentatori medievali solevano far precedere al testo commentato.

L’espressione accessus ad auctores, quale introduzione al testo, era usata in ogni genere di opere da parte dei vari commentatori e glossatori medievali, dai testi filosofici, a quelli giuridici, letterari, etc. Nella concezione dell’epoca, era considerato un modo per informare il lettore sugli elementi ispiratori dell’opera, oltre che sui contenuti essenziali e sui fini della stessa.

  1. ACCIDERE EX UNA SCINTILLA INCENDIA PASSIM

Talvolta da una sola scintilla si sviluppa un incendio (Lucrezio, De rerum natura, V, 609). Il motivo è presente in vari classici greci e latini ed anche nel Siracide (Cap. XI, 32), nella variante: «con una scintilla di fuoco si riempie il braciere».

Nei liberi adattamenti, l’immagine lucreziana può assumere un duplice significato metaforico:

  • come richiamo a non sottovalutare una determinata azione, in apparenza insignificante, perché da essa possono aver luogo cose importanti;
  • come richiamo a non trascurare piccoli particolari perché potrebbero essere forieri di effetti pregiudizievoli.

  1. ACCIPE PILEUM PRO CORONA

Ricevi il berretto in luogo della corona. Formula medievale la cui origine sembra in qualche modo legata al solenne conferimento della corona, come riconoscimento di dignità regale: accipe coronam – ricevi la corona.

Nei secoli scorsi, la formula era usata anche in occasione dell’imposizione del berretto dottorale nel conferimento delle lauree.

  1. ACCIPERE QUAM FACERE PRAESTAT INIURIAM

È meglio ricevere un’offesa (un torto, un’ingiustizia) che farla. Aurea massima di antica saggezza greca (Platone, Apologia di Socrate, Gorgia, 469), ripresa anche dalla letteratura latina: Cicerone, (Tusculanae disputationes, V, 19, 56); Seneca (Phoenissae, 494); Sant’Agostino (Enarrationes in Psalmos, 124, 8).

A fronte di un’offesa ricevuta, ove l’uomo istintivamente è portato a rispondere con un’altra offesa, alcuni insegnamenti contro tendenza della classicità esortano a non reagire ed a dimenticare: magni animi est iniurias despicere; iniuriarum remedium est oblivio (cfr. le relative voci).

In tema, è anche la storica espressione del Papa Gregorio VII (1013 – 1085, eletto papa nel 1073): dilexi iustitiam et odivi iniquitatem, propterea morior in exsilio – ho amato la giustizia e odiato l’ingiustizia, per questo muoio in esilio.

Posto che l’offesa è un danno morale, un’ingiuria, un oltraggio recato con atti, comportamenti o parole, alla dignità di una persona, l’aurea massima accipere quam facere praestat iniuriam viene ad assumere un profondo significato etico: «è meglio subire offesa che recare offesa a qualcuno».

In sunto, la massima in questione suona come esortazione a non reagire a iniziative di offesa ed indica, in antitetico paradosso, che quand’anche fosse inevitabile porre in essere un’offesa o patire ingiustizia, è preferibile subirla che farla.

Tale impostazione è anche in linea con gli insegnamenti della cristianità, secondo cui «è meglio subire il male che compierlo».

La massima si può citare anche a scopo consolatorio allorquando taluno subisca una palese ingiustizia o un torto.

  1. ACCLAMATIO

Acclamazione. Termine latino (der. da acclamare, comp. di ad – e clamare – gridare) per indicare un grido esuberante di approvazione, una entusiastica manifestazione di comune consenso, ad una proposta che viene accolta con una esultante approvazione unanime.

Nelle tradizioni dell’antica Roma, l’acclamatio dei soldati conferiva ufficialmente al comandante vittorioso il titolo di imperator. Nell’uso comune, l’elezione per acclamatio era la nomina di qualcuno ad una pubblica carica fatta da un’assemblea per comune consenso, senza ricorso al voto.

Nei primi secoli del cristianesimo, secondo le testimonianze paleocristiane, sarebbe stata abbastanza frequente l’acclamatio per l’elezione dei vescovi, mentre erano usuali le acclamazioni di carattere privato nelle cerimonie funebri, quale augurio di pace ai morti, pratica in uso ancora oggi presso molte comunità.

Oggi, nell’uso comune, si dice dell’accoglimento di una proposta di nomina a una carica, espressa da una assemblea o da un organo collegiale con entusiastica manifestazione di consenso da parte di tutti gli astanti e non preceduta da formale votazione.

 

  1. ACCUSARE NEMO SE DEBET

Nessuno è obbligato ad accusare se medesimo. Celebre massima ascritta a Cicerone ma il motivo era già largamente attestato nella classicità greca.

Di un certo interesse è poi la massima collaterale: turpitudinem suam nemo detegere tenetur – nessuno è tenuto a mettere allo scoperto la sua turpitudine (qui intesa come disonestà, vergogna).

Merita essere ricordata anche la parallela massima di concezione cristiana: accusare nemo se debet nisi coram Deo – nessuno è obbligato ad accusare se stesso se non di fronte a Dio.

È chiaro peraltro che chi ha agito male ha l’obbligo morale di ammetterlo ma spesso il colpevole preferisce il contrario, rendendosi così doppiamente colpevole.

  1. ACERBA SEMPER ET IMMATURA MORS EORUM QUI IMMORTALE ALIQUID PARANT

La morte di coloro che hanno fatto qualcosa di immortale ci appare sempre acerba e immatura (Plinio il Giovane, Epistulae, V, 5, 4). L’espressione pliniana rimarca come siano spesso i migliori quelli che se ne vanno per primi.

Si può citare per commentare o commemorare la scomparsa di grandi personalità e di persone ricche di doti morali e intellettuali.

  1. A CONTRARIO

Dal contrario, (muovendo dal contrario). Espressione della Scolastica medievale, ispirata a un fondamentale principio della logica aristotelica, quello che, muovendo da un’opposizione tra gli antecedenti, conclude con un’opposizione tra i conseguenti. Il ragionamento a contrario, nella logica aristotelica, è un’argomentazione dialettica di tipo analogico che consiste nel ricavare da ipotesi contrarie conseguenze contrarie, per cui, se un’affermazione è vera, si deduce che quella contraria deve essere falsa. Si contrappone all’argomento a pari.

Nell’uso comune, indica un esito o un risultato diverso da quello auspicato, un senso opposto o un opposto punto di vista.

Si dice anche di argomentazione o di ragionamento a contrario o a contrariis, di motivazione, di concetto o di tesi elaborata a contrariis, intendendo un’argomentazione dialettica di tipo analogico ricavata da ipotesi contrarie, muovendo dal contrario, secondo le tesi contrarie.

  1. ACTA DIURNA

Fatti del giorno. Nell’antica Roma, erano così definite le decisioni e le deliberazioni del Senato, pubblicate tramite tabulae esposte in luoghi pubblici.

In seguito, vennero definiti acta diurna anche gli avvisi e i notiziari collocati nei luoghi pubblici più frequentati, riportanti quotidianamente i principali eventi pubblici e privati.

Oggi, si può usare per indicare le principali cose avvenute durante il giorno e, bene o male, i fatti del giorno sono oggi riportati dai mass media.

Sul punto, cfr. le voci: alia aetas alios mores postulat; bonus atque fidus, iudex honestum praetulit utili; indignatio; facile est autem, ubi omnia quadrata currunt; instrumentum regni; necesse est enim ut veniant scandala; per publicam viam ne ambules.

  1. ACTA EST FABULA

Il dramma è finito, la commedia è finita, lo spettacolo è finito. Nell’antica Roma, era l’usuale formula conclusiva delle rappresentazioni teatrali con cui un attore annunciava la fine dello spettacolo, aggiungendo: plaudite cives – applaudite o cittadini.

Secondo l’erudito e biografo romano Svetonio (I-II sec. d. C.), acta est fabula sarebbero le ultime parole pronunciate da Augusto sul letto di morte (De vita Caesarum – Vita di Augusto, 99, 1), che proseguendo nella metafora avrebbe chiesto agli amici se aveva recitato bene il mimo della vita, aggiungendo poi: et nunc plaudite – e ora applaudite. Da ciò avrebbe avuto origine o sarebbe comunque derivato l’uso figurato dell’espressione acta est fabula.

Occorre peraltro tenere presente che l’immagine del teatro (come del resto quella della nave) era fatta oggetto di non poche metafore nell’antichità per rappresentare vicende della vita umana.

La metafora della vita come teatro, in cui l’uomo è un attore che rappresenta la sua parte davanti alla collettività che funge da pubblico, traspare anche dal frammento ciceroniano: scenae serviendum est – bisogna venire incontro ai desideri della platea (Cicerone, Epistulae, I, 9, 2). Analoga metafora della vita come teatro traspare dal frammento petroniano fere totus mundus exercet histrionem – quasi tutto il mondo recita (Petronio, Satyricon, 673), intendendo che la vita è come una recita, in cui gli uomini sono gli attori. Il topos della vita umana come recita è anche un motivo senecano: humanae vitae mimus – il mimo della vita umana (Seneca, Epistulae ad Lucilium, 80, 7), che allude ai momenti in cui si avverte la sensazione di recitare una parte.

Alla fine della nostra vita è giunto il momento di uscire di scena, proprio come fanno gli attori una volta recitata la loro parte, quasi ad indicare che tutta la vita può considerarsi una finzione.

La frase svetoniana acta est fabula si può citare anche in una sorta di slittamento di significato per annunciare che si è giunti al termine di qualcosa, per indicare la chiusura definitiva di una questione, la conclusione definitiva di un evento, la fine di un’impresa, di un’opera, et sim., sottintendendo che tutto è finito, che non c’è più nulla da fare o da aggiungere.

  1. ACTA EXTERIORA INDICANT INTERIORA SECRETA

Atti esteriori manifestano i segreti interiori. Formula della Scolastica medievale per veicolare l’idea che gli atti esteriori palesano la segreta intenzione.

In via di presunzione, indica che lo spirito caratterizzante determinati comportamenti riflette in genere l’intimo ed effettivo animo di chi li assume.

 

  1. ACTA INTERNA CORPORIS

Atti interni di un corpo, atti interni di un collegio. Formula giuridica per indicare gli atti normativi disciplinanti il funzionamento o l’attività interna di un determinato organo collegiale: legislativo, istituzionale, amministrativo.

Nel nostro ordinamento, i più importanti acta interna corporis sono i regolamenti parlamentari volti a disciplinare l’organizzazione interna e il funzionamento di ciascuna Camera (art. 64, primo comma, Cost.), regolamenti che per loro stessa natura sono sottratte al sindacato di legittimità della Corte Costituzionale.

Più genericamente, si dice dell’attività interna di un determinato organo collegiale: legislativo, istituzionale, amministrativo.

Nell’uso burocratico, si dice di ciò che avviene all’interno di un organo collegiale, delle decisioni destinate ad esplicare efficacia solo all’interno di un organo collegiale, di tutto ciò che regola il funzionamento di un organo collegiale.

In linea di massima, in assenza di specifiche norme positive, l’organo collegiale è libero di darsi un’autonoma organizzazione per il proprio funzionamento, adottando tutti gli atti interna corporis che reputi opportuni. Tale tipologia di atti, non è, di norma, suscettibile di sindacato da parte di soggetti esterni, né è soggetta ad approvazione o controllo nel merito da parte di organi interni o esterni.

Ma un conto è l’atto assunto interna corporis, altro è la decisione assunta interna corporis che, nel gergo burocratico, è propriamente definita «conchiuso». In passato, il termine era usato per indicare particolari accordi, convenzioni, trattati internazionali. Nel moderno linguaggio politico e burocratico con il termine «conchiuso» si suole invece indicare una misura preventiva o una decisione prudenziale con cui l’organo collegiale, informalmente, dispone ex ante in ordine a qualcosa che, per ragioni di vario ordine, al momento rimane riservata e quindi non ufficializzata in alcun modo.

Il c. d. «conchiuso» si traduce in una mera verbalizzazione interna di una decisione che l’organo si propone di formalizzare in un prossimo futuro, allorché si maturino le necessarie condizioni. In realtà, il «conchiuso» altro non è che una decisione politica secretata che, spesso, ha lo scopo di favorire qualcuno o, per contro, di ledere gli interessi di qualcuno.

Di tale decisione politica sono a conoscenza solo i componenti l’organo collegiale, i quali sono liberi di informare i relativi partiti di appartenenza e ciò è quanto basta per la proficua coltivazione delle loro clientele politiche o per perseguire intenti di partitocrazia.

E così la situazione che viene a determinarsi apre le strade a possibili macchinazioni politiche, alla possibile creazione di condizioni privilegiate o di miglior favore per ristrette cerchie di cittadini, che risulteranno avvantaggiati rispetto alla generalità, e quindi a metodi clientelari, sistemi clientelari, favoritismi clientelari, politiche clientelari, divenuti ormai fenomeni naturali connaturati nel sistema.

 

  1. ACTA PUBLICA PROBANT SE IPSA

Gli atti pubblici provano se medesimi, gli atti pubblici si provano da soli. Assioma giuridico di indiscusso pregio e di immutabile attualità anche nella concezione giuridica moderna.

Nel quadro attuale, in base all’art. 2699 c.c., «l’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato».

Quanto poi all’efficacia dell’atto pubblico, quale documento materiale con funzione di mezzo di prova privilegiato, l’art. 2700 c.c. dispone che «l’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti». Simile forza probatoria può venire meno solo attraverso un procedimento (querela di falso) volto ad accertare l’oggettiva falsità del documento.

Gli atti e documenti pubblici rendono tra l’altro possibile la creazione di certezza in ordine ai fatti documentati e la facoltà per i terzi di prendere visione presso gli uffici nei quali vengono conservati.

  1. ACTIO

Azione. Secondo la descrizione del filosofo greco Crisippo (ca. 281-208 a. C.), iniziatore dello stoicismo, l’actio era la quarta delle cinque grandi partizioni dell’arte retorica (assieme a inventio, dispositio, elocutio, memoria) e riguardava essenzialmente il modo di recitare il discorso con gesti e dizione appropriati e altresì il modo di descrivere le figure con il fine di produrre effetti di sorpresa, con vivacità ed efficacia rappresentativa.

 

  1. ACTIO MALE IUDICATI

Azione di revocazione. Neologismo del frasario giuridico per indicare le specifiche fattispecie di azioni contemplate dagli artt. 395 e 396 c.p.c.

La richiesta di revocazione è un mezzo di impugnazione fondato sull’esistenza di particolari circostanze che se fossero state conosciute dal giudice avrebbero portato ad una decisione diversa.

Si distingue tra azione di revocazione ordinaria, proponibile per impedire il passaggio in giudicato della sentenza (art. 395 nn. 4 e 5 c.p.c.) e azione di revocazione straordinaria, proponibile anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza (art. 395 nn. 1, 2, 3 e 6 c.p.c.).

 

  1. ACTIO POPULARIS

Azione popolare. Figura di azione della tradizione romanistica, riordinata poi dalla compilazione giustinianea, ove venne più propriamente definita actio quae tuetur ius populi – azione per la tutela del diritto del popolo (Digesto, 47, 23, 1). Era azionabile dal quivis de populo, quale promotore di un interesse generale oppure anche individuale, e si configurava in pratica come uno strumento di impulso o di stimolo attribuito a tutti i cittadini, in modo diffuso ed indifferenziato, al fine di indurre la pubblica autorità a pronunciarsi su questioni attinenti sia la sfera pubblica che privata.

Nel nostro ordinamento, si dice dell’azione popolare volta ad evidenziare deficienze o inerzie colpose o volontarie della Pubblica Amministrazione, laddove si dimostrino trascurati gli interessi della collettività, ma si configura anche come un mezzo di sollecitazione delle Pubbliche Istituzioni da parte dei privati, allo scopo di stimolare i relativi organi all’adozione di determinati atti nel superiore interesse.

L’azione popolare si rivela essere in definitiva un mezzo di difesa a protezione della sfera giuridica degli amministrati. Particolare interesse riveste oggi l’azione popolare prevista dall’art. 7 della Legge 8 giugno 1990 n. 142 e succ. mod.

 

  1. ACTUM EST

È fatta. Espressione della classicità latina per indicare una cosa portata a termine, una cosa definita.

Si può usare in vari casi pratici, in un’affinità di significati, come ad es. per indicare:

  • un’opera compiuta, portata a compimento;
  • un’operazione interamente svolta e definita in ogni particolare;
  • un affare già concluso in ogni sua parte.

Va detto che le cose, una volta portate a termine, vengono ad assumere un assetto definitivo e, qualora successivamente modificate, vanno valutate per come si presentano nel momento considerato.

  1. ACTUM NE AGAS

È già stato fatto, non farlo. Espressione della classicità latina (Cicerone, Epistulae ad Atticum, IX, 6, 6; Terenzio, Phormio, 419) per indicare che non è necessario rifare ciò che è stato fatto.

In campo semantico, si può riprendere in un duplice significato:

  • come invito a non fare qualcosa che è già stato fatto;
  • come monito a non cadere due volte nel medesimo errore.

  1. AD ABSURDUM

Per assurdo. Espressione della Scolastica medievale, propria del linguaggio filosofico e scientifico, per alludere al procedimento intellettuale con cui si dimostra la verità di una tesi delineando i risultati assurdi ai quali si giungerebbe se si dimostrasse la tesi contraria (amplius, cfr. la voce: ab absurdo).

  1. AD ABUNDANTIAM

In abbondanza (per abbondare). Espressione del linguaggio giuridico (in it. è loc. avv.), usata anche in quello comune, per indicare: più che a sufficienza. Si dice in genere di ulteriori argomenti portati a sostegno di una tesi già sufficientemente provata oppure di elementi che, sebbene non necessari, si aggiungono oltre il bisogno, a maggior conferma di quanto già detto o provato, a titolo anche di cautela contro ogni eventualità.

Nell’uso comune, assume il significato generico di: in più, in aggiunta, come se non bastasse, ampiamente, al di là del giusto limite, e si introduce solo per premunirsi contro ogni possibile sorpresa o per procurarsi qualcosa in più del necessario (per non trovarsi poi sprovvisti).

  1. AD ADIUVANDUM

In aiuto (per aiutare). Espressione della tradizione giuridica (in it. è loc. attr.), ripresa anche nel linguaggio comune, per significare: «al fine di portare aiuto».

In senso generale, si dice di un’azione collaterale che contribuisce a conseguire meglio uno scopo e, più genericamente, di legittimazioni secondarie di intervento in genere.

Si suole così definire interventus ad adiuvandum qualunque azione parallela finalizzata al miglior conseguimento dell’obiettivo principale o che giova comunque a far raggiungere meglio il fine cui si tende.

 

  1. AD ASTRA DOLORIBUS ITUR

Alle stelle si arriva attraverso i dolori (Prudentius, Liber Cathemerinon, X, 92). L’espressione del poeta romano Prudenzio (ca. 348-413) riprende il motivo della classicità latina per aspera ad astra (cfr. la relativa voce) ma accordando una connotazione cristiana.

Invero, la connotazione cristiana traspare dall’intera attività letteraria di Prudenzio (ca. 348-413), quella propria dei primi scrittori cristiani, che pone in luce in particolare il pensiero di Tertulliano (ca 155-222).

In campo semantico, l’espressione è ripresa per indicare che le virtù più elevate si raggiungono con grande fatica e con personale sacrificio.

  1. AD AUDIENDUM VERBUM

Ad ascoltare la parola, per udire la parola (a sentir parlare). Espressione del linguaggio ecclesiastico medievale (in it. è loc. avv.) per indicare la convocazione presso un superiore al fine di ricevere ordini oppure rimproveri.

Nei rapporti gerarchici e diplomatici, è il caso del subalterno che si presenta o è invitato a presentarsi davanti a persona autorevole (solitamente davanti ad un superiore) per ricevere disposizioni, prendere istruzioni di servizio, per ricevere ordini o direttive (ma anche rimproveri o biasimi).

  1. AD AUGUSTA PER ANGUSTA

A cose auguste per vie anguste. Motto della classicità greco-latina che assume significato di: a luoghi eccelsi per vie anguste, a luoghi eccelsi per vie difficili, alla gloria attraverso il sacrificio.

In campo letterario, non mancano significative citazioni: ardua et praeceps gloria vadit iter – la gloria cammina per una via ardua e scoscesa (Ovidio, Tristia, IV, 3, 47); non est ad astra mollis terris via – la via dalla terra agli astri non è facile (Seneca, Hercules furens, 437); arator, nisi incurvus, praevaricatur – l’aratore se non va curvo esce dritto dal solco (Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XVIII, 49, 4); nil sine magno vita labore dedit mortalibus – la vita non offre nulla ai mortali senza grandi fatiche (Orazio, Satire, I, 9, 59); nemo athleta sine sudoribus coronatur – nessun atleta conquista la corona senza fatiche (San Girolamo, Epistulae, 14, 10), ad indicare che non si ottiene nessun successo senza fatica, ovvero che una buona riuscita è generalmente frutto di sacrifici.

In tema, il filosofo e mistico indiano Paramahansa Yogananda (1893-1952) scrive: «sebbene sia arduo affrontare le incalzanti prove della vita, tuttavia, se ti impegnerai con decisa fermezza, supererai trionfante qualsiasi sfida», soggiungendo poi: «possiamo raggiungere il successo solo se lo afferriamo e non se ci limitiamo semplicemente ad attenderlo».

Il motto ad augusta per angusta è ripreso per indicare che attraverso le asprezze dei sacrifici si raggiungono i vertici della carriera e della fama.

Gli alti risultati della gloria o del successo si raggiungono solo superando ogni sorta di difficoltà, le mete più alte e le virtù più elevate si raggiungono con grande fatica, assodato che senza un personale sacrificio non si conseguono traguardi ambiziosi.

  1. AD BESTIAS

Alle belve, alle bestie feroci (del circo). Nell’antica Roma, fin dalla prima età imperiale, essendosi diffusa la passione per i giochi del circo, chi subiva una condanna penale (per lo più stranieri, abitanti delle province, schiavi, prigionieri di guerra e, da ultimo, i cristiani) veniva obbligato a battersi nell’arena contro le belve.

È noto come le masse popolari pagane fossero ostili verso i Cristiani e sempre pronte ad attribuire a loro la colpa di ogni crimine e di ogni sciagura. Persino tra gli uomini di cultura pagani si era diffusa l’opinione che i responsabili delle pubbliche sciagure fossero i Cristiani, in quanto si riteneva che il loro rifiuto di rendere omaggio agli dei tradizionali provocasse l’ira dei medesimi, e quindi non potevano che essere a priori colpevolizzati e obbligati a battersi nell’arena contro le belve.

I letterati del tempo, in particolare Plinio, Tacito e Svetonio, hanno sottolineato l’incompatibilità del cristianesimo con i principi più sacri della tradizione romana, definendo la religione cristiana come una superstitio volta al disprezzo degli dei usuali, caratterizzata da intolleranza e fanatismo, dimostrata anche dal fatto che i vari aderenti non prendevano parte alla vita pubblica.

Al contrario, l’apologista, scrittore e filosofo cristiano Tertulliano (ca. 155-222) deplora simili credenze, ritenendo la filosofia pagana, con i suoi personaggi più luminosi, nient’altro se non una serie di aberrazioni morali che portano fatalmente all’ottenebramento intellettuale. Tertulliano, nella sua opera Apologeticum, denuncia l’infondatezza delle accuse verso i cristiani, che erano di due specie: delitti occulti (infanticidio, incesto, cene tiestee) e delitti manifesti (lesa religione e lesa maestà, astensione dalla vita sociale, diserzione dei soldati cristiani). Infine, Tertulliano denuncia con ferma determinazione l’arbitrarietà delle condanne dei cristiani unicamente in base al nomen, cioè per il fatto di essere cristiani.

Gli imperatori Traiano e Adriano, pur non reputando a priori pericolosa la nuova religione cristiana, con rescritti ad hoc hanno inteso precisare che la stessa deve essere mantenuta nell’ambito della legalità. Traiano afferma in particolare che i cristiani non devono essere ricercati e, se denunciati, devono essere condannati solo se la denuncia è firmata ed essi comunque non abiurano.

Sta di fatto che, con il diffondersi del cristianesimo, la condanna ad bestias divenne il terribile supplizio che dovevano spesso subire i cristiani dei primi secoli. L’espressione di condanna comunemente usata dalla plebe romana in epoca imperiale era: christianos ad leonem – i cristiani ai leoni (Tertulliano, Apologeticum, 40, 22). I condannati ad bestias, come detto sopra, erano obbligati a battersi nell’arena con le fiere del circo e destinati inesorabilmente ad essere straziati dalle medesime.

L’espressione latina ad bestias (in it. è loc. avv.) si usa una sorta di slittamento di significato, in tono ironico o scherzoso, per alludere ad una pena molto dura.

  1. AD CAPTANDUM VULGUS

Per adescare il volgo. Detto medievale per indicare ciò che viene detto o fatto con il preciso intendimento di gettare polvere negli occhi agli sprovveduti, di ingannare la gente non sufficientemente accorta.

Nell’adattamento italiano, assume significato sinonimico di: per accalappiare gli sciocchi; per abbindolare il popolino; per adescare il popolino, allettandolo con lusinghe o altro.

L’inganno ordito per ingannare gli ingenui con lusinghe o prospettive allettanti, oggi si suole definire «specchio per le allodole», intendendo ogni sorta di machinatio volta a creare situazioni pregiudizievoli per altri.

  1. AD CONSILIUM NE ACCESSERIS, ANTEQUAM VOCERIS

Non dare consigli a chi non li chiede. Adagio medievale che trae probabilmente origine da una favola di Fedro: consilia qui dant prava cautis hominibus, et perdunt operam et deriduntur turpiter (cfr. la relativa voce).

L’adagio insegna che i consigli troppo interessati, così come i consigli dati a chi non li chiede, prima o poi si svelano e mettono in cattiva luce chi li dà. Nello stesso tempo, resta confermato anche l’ulteriore adagio: magis consiliarius est, quam auxiliarius – è più facile consigliare che fare.

Gli studiosi di etica sociale osservano che il suggerimento dato in via amichevole a qualcuno, esclusivamente per il suo bene, può essere più prezioso dell’oro ma se però non ci è stato richiesto può venire frainteso o essere considerato di parte.

Secondo il pensiero dell’uomo politico, diplomatico e letterato inglese Philip Stanhope Chesterfield (1694-1773): «i consigli sono raramente graditi. E quelli che ne hanno più bisogno sono anche sempre quelli cui piacciono meno».

In sunto, l’adagio latino ad consilium ne accesseris, antequam voceris suona come esortazione ad astenersi dal consigliare se non siamo stati richiesti di farlo.

  1. ADDENDA

Cose da aggiungere. È il gerundivo di addere – aggiungere. In campo letterario, il concetto di aggiungere irrazionalmente qualcosa emerge dal verso ciceroniano: croesii pecuniae teruncium adicere – aggiungere un soldo al tesoro di Creso (Cicerone, De finibus, IV, 12, 29), che allude ad un’azione insensata e assurda.

La forma latina addenda (come anche adde – aggiungi) è in uso ancora oggi per indicare un elemento supplementare, mere aggiunte o integrazioni da apportare a un atto, a uno scritto, a un documento, a un testo.

In un libro a stampa, l’espressione addenda et corrigenda – cose da aggiungere e da correggere indica propriamente l’elenco delle aggiunte, delle correzioni e delle integrazioni al testo, solitamente riassunte in un elenco o nota a margine o anche a parte.

In matematica, quando si fa una somma o addizione, si chiamano addendi i numeri che devono essere messi in colonna per essere sommati.

  1. AD DISCENDUM QUOD OPUS EST NULLA MIHI AETAS SERA VIDERI POTEST

Nessuna età mi sembra troppo tarda per imparare ciò che è necessario (Sant’Agostino, Epistulae, 166, 1). Celebre adagio di Sant’Agostino (riportato in una lettera a San Girolamo) per sottolineare l’importanza di un continuo esercizio intellettuale anche in età avanzata.

Il motivo originario è però catoniano, discere ne cessa, cura sapientia crescat; rara datur longo prudentia temporis usu (cfr. la relativa voce), e indica che anche i vecchi devono continuare a imparare perché lo stimolo intellettuale aiuta a conservare la mente giovane.

Concettualmente simile è l’adagio ciceroniano studia adulescientiam alunt, senectutem oblectant (cfr. la relativa voce), ad indicare che per i giovani lo studio è una necessità formativa, mentre per i vecchi è un arricchimento spirituale, non indispensabile ma utile a vivere meglio.

La tradizione popolare annovera il detto: «non è mai troppo tardi».

  1. AD EUNDEM QUO NEMO ANTE IIT

Fino ad arrivare dove nessuno è mai giunto prima. L’espressione richiama l’immagine dei confini del mondo navigabile (Pindaro, Nemee, III, 21) che, per gli antichi finiva con le Colonne d’Ercole: ibi deficit orbis – qui termina il mondo.

Secondo la leggenda, Ercole stesso ha eretto le colonne sullo Stretto di Gibilterra, in ricordo delle sue imprese, per indicare il limite invalicabile (amplius, cfr. la voce: non plus ultra).

  1. AD EXCLUDENDUM

Per escludere, al fine di escludere. Espressione del latino curiale medievale (in it. è loc. attr.), ripresa anche nel linguaggio comune, per indicare un’intesa che mira ad escludere qualcosa, una condizione od una riserva posta al preciso scopo di escludere qualcosa o qualcuno.

Nel moderno frasario politico, indica l’accordo, raggiunto tra due o più partiti, con cui viene escluso precipuamente l’intervento di altri.

  1. ADFINITAS IN CONIUGE SUPERSTITE NON DELETUR

L’affinità nel coniuge superstite non cessa. Formula della tradizione giuridica per indicare che il rapporto di affinità, alla morte del coniuge da cui deriva, non si estingue, non viene meno, nel coniuge superstite. Inoltre, se il coniuge superstite passa a nuovo matrimonio conserva i precedenti rapporti di affinità e ne acquista di nuovi nei confronti dei parenti del nuovo coniuge.

Nel nostro ordinamento, il principio della non cessazione del vincolo di affinità in caso di morte del coniuge da cui deriva è contemplato dal terzo comma dell’art. 78 c.c. che dichiara la cessazione dell’affinità solo in caso di annullamento del matrimonio, facendo peraltro salvi alcuni effetti specialmente determinati. Peraltro, la logica del nostro sistema comporta la cessazione del vincolo di affinità anche in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio (divorzio).

 

  1. ADFINITAS NON PARIT ADFINITATEM

L’affinità non genera affinità. Formula della tradizione giuridica per indicare che l’affinità non crea altra affinità.

Nel vigente sistema, l’affinità, quale vincolo che si instaura tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge, è regolata dall’art. 78 c.c., secondo cui l’affinità non si estende oltre i rapporti tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge e pertanto i consanguinei di un coniuge non sono affini dei consanguinei dell’altro coniuge. L’affinità rimane dunque un vincolo che unisce un coniuge e i parenti dell’altro coniuge ma non anche gli affini di quest’ultimo.

 

  1. ADFINIA VINCULA

Vincoli di affinità. Espressione della tradizione giuridica per indicare il vincolo giuridico tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge (art. 78 c.c.).

Nel vigente sistema, gli effetti giuridici dell’affinità si riscontrano soprattutto in tema di: impedimenti al matrimonio, diritto agli alimenti, indennità in caso di morte di un lavoratore, alcuni divieti o incompatibilità previste ex lege.

Resta ferma peraltro la regola secondo cui tra affini non esistono diritti ereditari: adfinitatis iure nulla successio.

  1. AD FUTURAM REI MEMORIAM

A futura memoria della cosa. Espressione della classicità latina per indicare che si intende lasciare il ricordo di qualcosa.

Nell’uso italiano, indica una testimonianza della cosa a futura memoria, una testimonianza dell’avvenimento a futura memoria. Può ricorrere anche in dediche, intitolazioni, appunti e scritti in genere.

  1. AD GLORIAM

Per la gloria. Espressione del latino volgare medievale per indicare un lavoro o un incarico che si fa senza alcun compenso.

Più genericamente, si dice di qualsiasi occupazione o attività che non dà alcun utile materiale e si fa come diversivo o per svago.

  1. ADGNOSCO VETERIS VESTIGIA FLAMMAE

I noti segni risento del fuoco antico risorgere (Virgilio, Eneide, IV, 23). Sono le parole con cui Didone confessa alla sorella Anna, non appena si rende conto di essersi innamorata di Enea, di provare ancora la stessa passione che aveva nutrito per lo sposo defunto.

E però soggiunge Didone che, dopo la misera morte a Tiro del suo sposo Sicheo, a cui aveva giurato eterna fedeltà, pur risentendo per Enea i segni «del fuoco antico», il suo cuore rimane legato a Sicheo, come emerge dal verso: solus hic inflexit sensus animumque labantem impulit – solo quest’uomo (Sicheo) ha mosso il mio cuore e il mio vacillante animo ha spinto verso di sé. Dall’intero contesto si desume che lo sconvolgente sentimento di amore e di passione che Didone aveva nutrito per il marito defunto allontana in lei il pensiero di altri approcci.

Il motivo viene ripreso da Dante che, nel Purgatorio (30, 48), all’incontro con Beatrice esclama: «conosco i segni dell’antica fiamma».

Il frammento virgiliano adgnosco veteris vestigia flammae si riprende per sottolineare il ridestarsi di un sentimento che si credeva spento e, più genericamente, per esaltare il ricordo di un amore indimenticabile.

  1. AD HOC

A questo scopo, per questo. Espressione della classicità latina (in it. è loc. avv. e attr.) per indicare qualcosa di esattamente adatto a uno scopo, l’attitudine o la predisposizione ad un determinato scopo, ma anche persona o cosa adatta per un determinato scopo o per un fine specifico per cui si compie una particolare azione.

L’espressione latina ad hoc è oggi di largo impiego nel significato generico di: «fatto apposta, adatto, appropriato».

Con valenza aggettivale o avverbiale, indica che una data realtà è fatta apposta per un’altra a cui serviva, quindi si assume nel significato di: a questo scopo, per questo, apposta per questo, appositamente, per ciò, a tale fine, a proposito, et sim.

Con valore attributivo, indica: ciò che è adatto allo scopo (oggetto, cosa, persona, argomento), che risponde in pieno a una determinata esigenza. Ad es., si dice essere persona ad hoc quella che presenta una particolare predisposizione o attitudine per la funzione assegnatale, quella che sembra tagliata su misura per un determinato scopo.

  1. AD HOC TEMPUS

Fino al tempo presente (Sallustio, Bellum Iugurthinum, 102; Cesare, De bello gallico, VI, 24). Espressione della classicità latina per indicare: fino a questo momento, finora, et sim.

Si distingue dalle espressioni:

  • ad diem, che indica nel giorno fissato;
  • ad hoc diei tempus (Plauto, Asinaria, 253), che indica fino a quest’ora;
  • ad multum diei, che indica fino a giorno inoltrato;
  • ad praesens (Plinio, Naturalis historia, XIII, 3), che indica per il momento;
  • ad id tempus e ad id locorum (Livio, Historiae, XXV, 22, 1), che indicano fino a quel momento.

  1. AD HOMINEM

Secondo l’uomo, per l’uomo (Locke, Saggio, IV, 17, 21). Espressione del linguaggio filosofico, ascritta al filosofo inglese Locke John (1632 – 1704) ma l’idea filosofica era conosciuta anche in precedenza dalla Scolastica.

Secondo la teoria del Locke, l’argomento o la dimostrazione ad hominem è un particolare modo di argomentare e di dimostrare la verità: servendosi delle stesse premesse o degli stessi argomenti utilizzati dall’avversario, si confuta l’infondatezza o l’erroneità dei medesimi, senza entrare in merito alla loro validità o veridicità, contrapponendo le conseguenze che risultano dalle tesi più probabili. Si contrappone al modo di argomentare ad veritatem – secondo la verità che, fondandosi su elementi scientifici, recte su basi oggettive e scientificamente irrefutabili, consente di provare la tesi in modo inoppugnabile.

Nell’uso comune, l’espressione latina ad hominem (in it. è loc. attr.) indica che una data cosa o un dato discorso riguarda rigorosamente una persona precisa, che sembra fatta apposta per una determinata persona e quindi sta per: preordinato alla persona di cui si tratta, riferito ad un determinato individuo, diretto e finalizzato ad una data persona, fatto o predisposto per una particolare persona, et sim.

Si dice argumentum ad hominem, discorso ad hominem, parlare ad hominem quello che, nella sostanza o nella forma, sembra fatto apposta per una determinata persona, che s’accomoda alla persona cui s’indirizza, quello espresso a riguardo di una certa persona o appositamente predisposto per una data persona, et sim.

  1. AD HONESTATEM

Per la buona creanza. Espressione della retorica medievale per indicare l’insieme dei modi di atteggiarsi e dei comportamenti che, nei rapporti con gli altri, si convengono a persona corretta e bene educata.

Il famoso Galatheus di Mons. Giovanni della Casa (1503-1556), nel spiegare le maniere giuste e il comportamento adatto da tenere in società, indica che la «buona creanza deriva da un sereno dominio delle inclinazioni naturali», facendo capire che procura la benevolenza e la disponibilità delle altre persone.

La «buona creanza» deriva altresì da un insieme di virtù e non prescinde da un insieme di regole morali e di etica (cfr. le voci: ex proprio rigore; ex propriis sensibus). Diviene una questione di creanza anche lo stesso modo di comportarsi nel compiere un qualche atto, nel trattare, nel conversare, etc.

In breve, la buona creanza ad honestatem, definita come l’abito della rigorosa educazione ricevuta, è intesa come buona disposizione d’animo e come onestà comportamentale. Sui modi di agire e sul contegno da tenere, cfr. anche la voce: quod dedit recepit.

Nell’uso comune, l’espressione ad honestatem indica un comportamento improntato alla massima correttezza, un contegno da cui traspare rettitudine e rispetto verso tutti, quindi equivale a: per ciò che fa d’uopo, per ciò che conviene fare (secondo onestà e rettitudine).

In tema di rapporti con gli altri, è di grande pregio il suggerimento del filosofo e mistico indiano Paramahansa Yogananda (1893-1952): «cerca sempre di essere interiormente simile ad un angelo, comunque si comportino gli altri: sii sincero, gentile, amorevole e comprensivo».

Si deve peraltro riconoscere che, nel quotidiano, non è certamente facile seguire alla lettera questo prezioso suggerimento, sia per i vincoli posti dalla convulsa vita moderna che per i condizionamenti della convivenza sociale, ma è però importante che tutti si sforzino di conformarsi ad esso.

Persone che si distinguono per comportamento esemplare, particolare dolcezza e sensibilità d’animo, ad instar dell’ideale Paramahansa, si incontrano anche ai giorni nostri, la dott.ssa Elena è sicuramente una di queste.

  1. AD HONOREM

A onore, per onore, a titolo di onore. Espressione della classicità latina riferita a una carica, funzione o riconoscimento, che comporti vantaggi solo formali.

Oggi, nel campo delle istituzioni civili, militari ed ecclesiastiche, si dice conferito ad honorem un titolo accademico (per lo più diploma di laurea ad honorem), senza necessità di esami, a persone di singolare perizia, competenti e preparate, in un determinato campo.

L’espressione ad honorem (in it. è loc. attr.) si usa anche per indicare che ad una persona viene assegnato un ruolo onorifico (ufficio, carica e/o funzione), senza esserne investita del potere effettivo e senza ricevere alcun emolumento o compenso e quindi sottintendendo: in riconoscimento di particolari meriti, in segno di onore, et sim.

Ed altresì si usa con riferimento a chi è stato promosso al grado superiore a titolo di onore, a chi ha ottenuto la nomina onoraria in seno ad organi od organismi pubblici in riconoscimento di speciali meriti personali, prescindendo dai requisiti di legge: presidente ad honorem.

Infine, si dice di un titolo conferito per onorare una persona (es. concessione della cittadinanza ad honorem).

  1. AD HORAS

Entro poche ore (per l’ora fissata). Espressione del latino medievale (in it. è loc. avv.) per indicare una convocazione o un rinvio di poche ore.

Si dice ad horas ciò che viene programmato o disposto per le prossime ore, a distanza di poche ore, fra poco, ben presto, da un momento all’altro, da un’ora all’altra. Si contrappone a ad horam che indica invece «a ora fissa».

In ambienti politici e burocratici si sogliono definire ad horas le convocazioni indette in via d’urgenza, con un brevissimo intervallo di tempo tra l’avviso di convocazione e la tenuta della riunione, mentre invece si sogliono definire ad horam quelle indette «a ora fissa».

  1. ADHUC SUB IUDICE LIS EST

La lite è ancora innanzi al giudice, la vertenza è sotto il giudizio del giudice (la lite pende ancora). L’espressione trae origine dal verso oraziano: quis tamen exiguos elegos emiserit auctor, grammatici certant et adhuc sub iudice lis est – su chi per primo abbia creato gli esili versi dell’elegia i grammatici discutono e la controversia è ancora nelle mani del giudice (Orazio, Ars poetica, 77 – 78), il cui sarcastico contesto è riferito ad una questione letteraria, che non era ancora stata risolta, quella su chi fosse stato il primo poeta elegiaco.

Oggi, è d’uso corrente l’ellissi sub iudice per indicare che una questione non è ancora stata definita, che è all’esame di qualcuno, che non si è ancora trovato l’accordo o la soluzione.

  1. ADHUC TUA MESSIS IN HERBA EST

La tua messe è ancora erba (Ovidio, Heroides, XVII, 271). Simbologia ovidiana per indicare una cosa non ancora verificatasi, non ancora avvenuta.

Si può citare in diverse circostanze, in un’affinità di significati, come ad es. per indicare:

  • una notizia relativa a fatti non ancora accertati;
  • una cosa in via di formazione;
  • una decisione non ancora maturata;
  • una cosa richiesta troppo presto, prima ancora che sia venuta in essere.

  1. AD IMPOSSIBILIA NEMO TENETUR

Nessuno è tenuto a fare l’impossibile. Formula giuridica per indicare che nessuno può essere obbligato a prestazioni impossibili, assodato che la prestazione convenuta deve essere possibile.

Si usa anche nel linguaggio comune:

  • per indicare che nessuno può essere costretto a fare ciò che non può, a fare ciò che gli è assolutamente impossibile;
  • per manifestare l’impossibilità di intraprendere azioni superiori alle proprie forze.

Chi è chiamato ad agire la invoca come giustificazione in caso di mancato compimento di qualcosa.

Per chi si aspetta da qualcuno una prestazione che non può oggettivamente fornire, suona come ammonimento a non pretendere da altri ciò che non è nelle loro possibilità.

  1. AD INCERTAM PERSONAM

A persona indeterminata. Espressione della tradizione giuridica, ripresa anche nel linguaggio comune, per indicare la generalità delle persone.

In linea generale (in it. è loc. avv.), si dice che una data cosa riguarda tutti indistintamente, che è diretta o rivolta alla collettività. È un modo di rivolgere una proposta o un’offerta ad una collettività imprecisata di persone, alla generalità.

  1. AD INSTAR

A somiglianza di …, proprio come … Espressione della classicità latina (Apuleio, Metamorfosi, II, 9; Cicerone, Verrine, V, 89; Virgilio, Eneide, II, 15) per indicare una relazione di somiglianza con altra cosa (nella figura, nelle qualità, nelle caratteristiche).

Si può usare in vari casi pratici, in un’affinità di significati, come ad es. per indicare:

  • somiglianza, anche nel senso di affinità, tra cose o persone;
  • in modo simile a una certa cosa o allo stesso modo di altra realtà oggettiva;
  • analogia di aspetto esteriore, di qualità o di caratteri, con altra cosa;
  • in modo conforme a un dato modello o punto di paragone.

Nell’uso italiano, surroga espressioni del tipo: a guisa di, ad uguaglianza, l’equivalente, in modo simile.

  1. AD INTERIM

Nel frattempo. Espressione latina (in it. è loc. avv. e attr.), formata dall’avverbio interim che significa frattanto (per ora) e la preposizione ad che indica il tempo, assunta come complemento di tempo per indicare: provvisoriamente, in via provvisoria, per ora, temporaneamente, interinalmente, nel periodo intermedio di vacanza, per intanto, per un periodo limitato.

Nell’uso comune, indica una situazione di provvisorietà, quale può essere un incarico conferito in via provvisoria, in attesa di nominare il titolare.

  1. ADITUM NOCENDI PERFIDO PRAESTAT FIDES

L’altrui fiducia offre al malvagio l’occasione di nuocere (Seneca, Oedipus, III, 1, 178). L’adagio indica che le persone fiduciose sono le più esposte agli inganni altrui.

Invero, anche l’eccessiva diffidenza chiama l’inganno, nel senso che, nel timore di essere ingannati, si è portati ad assumere un atteggiamento di sospetto, per cui si finisce per imparare a ingannare.

In genere, chi è abituato a compiere azioni cattive e perverse è portato a pensare che tutti gli altri si comportino come lui.

Ne deriva che non si deve esagerare nelle misure precauzionali, tenendo anche presente che, in genere, più una persona si sente in colpa o in torto più è portata a sospettare delle azioni e dei comportamenti altrui.

  1. AD IURA RENUNTIATA NON DATUR REGRESSUS

Non si ha azione di regresso per un diritto a cui si è rinunziato. Formula della tradizione giuridica per indicare che:

  • chi ha rinunciato a un suo diritto non ha possibilità di regresso,
  • una volta rinunciato ad un proprio diritto non è più consentito infirmare la rinuncia,
  • il diritto rinunciato non è suscettibile di riviviscenza,
  • non è consentito tornare indietro dopo aver rinunciato a certi diritti.

Il principio è sempre di attualità, benchè oggi vada soggetto a contemperamenti e risulti suscettibile di eccezioni.

 

  1. A DIVINIS

Dalle cose divine (dalle cose sacre, dagli atti divini del culto). Espressione propria del diritto canonico (in it. è loc. avv.) per indicare la pena ecclesiastica ad un sacerdote di interdizione dall’esercizio degli atti del culto e di ogni uffizio divino: a divinis officiis o mysteriis.

Più propriamente, è definita sospensione a divinis la sanzione disciplinare comminata dall’autorità ecclesiastica a un sacerdote che si sia reso indegno di continuare nel suo ministero per mancanze gravi, sospettato di eresia o che sia incorso in particolari censure ecclesiastiche: ad es., il prete che si sposa, che viola il segreto confessionale, che fa politica attiva, etc.

Il sacerdote sospeso a divinis è privato dall’esercizio degli uffici divini e dalle funzioni religiose, quali: amministrazione dei Sacramenti, celebrazione della Messa, etc. In pratica, la sospensione a divinis è la punizione che la Chiesa infligge ai suoi ministri che abbiano violato i loro specifici obblighi o siano venuti meno agli oneri connessi con il loro ministero.

Diversamente dalla scomunica, la sospensione a divinis ha carattere temporaneo e cessa con l’assoluzione dell’autorità competente.

Nei comuni modi di dire, si invoca scherzosamente o ironicamente la contrapposta sospensione ad humanis, riferendosi in particolare al mondo dell’attualità e della politica.

  1. AD KALENDAS GRAECAS

Alle calende greche. Secondo il racconto dell’erudito e biografo romano Svetonio (De vita Caesarum – Vita di Augusto, 87, 1), l’imperatore Augusto (27 a. C. – 14 d. C.) era solito dire ad Kalendas Graecas soluturos per indicare che un debitore moroso non avrebbe mai pagato il suo debito (secondo altra fonte, Svetonio attribuisce la frase a Giulio Cesare per indicare un pagamento che non intendeva saldare).

Da notare che, in base al calendario romano, le calende erano il primo giorno di ogni mese ma tale denominazione non esisteva nel calendario greco.

Occorre ricordare, per inciso, che il primo schema di calendario lunare di 12 mesi sarebbe stato introdotto dai decemviri (secondo altre fonti era invece già in atto), a cui i pontefici apportarono gli accorgimenti necessari per farlo coincidere con l’anno solare.

Gli storici latini riferiscono che il calendario romano di Numa Pompilio comprendeva 355 giorni, ripartiti su 12 mesi: januarius (29 giorni), februarius (28 giorni), martius (31 giorni), aprilis (29 giorni), maius (31 giorni), iunius (29 giorni), quintilis (31 giorni), sextilis (29 giorni), september (29 giorni), october (31 giorni), november (29 giorni), december (29 giorni).

A seguito delle modifiche apportate all’epoca di Giulio Cesare, a partire dal I gennaio del 45 a. C., il calendario romano venne ad avere 365 giorni, con la previsione di un anno bisestile, prima ogni 3 anni poi dopo 4. Tale nuovo calendario, conosciuto come «calendario giuliano», fu poi riveduto all’epoca di Augusto ma solo per quanto riguarda il nome di due mesi specifici: il mese quintilis prese il nome iulius (in onore di Giulio Cesare) e il mese sextilis prese il nome di augustus (in onore di Augusto). Il «calendario giuliano» rimase in vigore fino al 1582, quando venne sostituito dal «calendario gregoriano».

Alcuni giorni del «calendario giuliano» erano contrassegnati da un nome: il I giorno del mese era detto kalendae, il IX giorno era detto nonae, il XIII giorno era detto idus. Da notare poi che il calendario romano contraddistingueva con la lettera «F» i giorni fasti, in cui si amministrava la giustizia nei tribunali, con la lettera «N» i giorni nefasti, in cui era inibito amministrare la giustizia nei tribunali, con la lettera «C» i giorni comitiales, in cui si tenevano i comizi.

Quindi, nel calendario romano le calende, le none e le idi erano, rispettivamente, il primo, il nono e il tredicesimo giorno del mese (da notare però che a marzo, maggio, luglio e ottobre, le none e le idi erano spostate di due giorni).

Nelle kalendae, che cadevano senza eccezioni il primo giorno di ogni mese, i creditori erano soliti chiedere ai debitori di versare gli interessi sul denaro prestato o la restituzione del denaro stesso. Dato però che il calendario greco, diversamente impostato, presentava una diversa scansione temporale rispetto al calendario romano e non contemplava comunque le calende, rimandare un pagamento alle calende greche significava non avere intenzione di regolarlo mai.

L’espressione latina ad kalendas graecas (in it. è loc. avv.) è oggi usata in contesti scherzosi per indicare eufemisticamente il rinvio di qualcosa a un tempo indeterminato, con la reale intenzione di non occuparsene mai.

In senso più ampio, esprime l’idea di qualcosa che non succederà mai o allude a un’epoca che non verrà mai, ad un’operazione rinviata sine die, ad un pagamento o ad un adempimento rinviato, a una data o a un’epoca molto lontana, quanto mai ipotetica, che non verrà mai. Quindi, rimandare alle calende greche, pagare alle calende greche, significa un rinvio a tempo indeterminato.